La quarta egloga si apre con l’immagine vegetale più nota dell’intero libro: ai generici arbusta, già incontrati più volte, e alle altrettanto generiche silvae, vengono contrapposte le humiles myricae. L’aggettivo, già utilizzato nella seconda egloga per le capanne che poco si elevano dal suolo, è ben noto; la pianta indicata, lo è di meno. Di norma, myricae viene tradotto con ‘tamerici’, un genere di piante di cui esistono una sessantina di specie, molto diffuse in tutto il bacino mediterraneo, soprattutto nelle zone litoranee e prossime al mare. Possono assumere forma di arbusto o di albero, sono sempreverdi o a foglie caduche, nelle specie arboree raggiungono un’altezza di 15 m. L’esemplare più comune in Italia è la tamarix gallica, cespugliosa, ma che può comunque raggiungere i 5-6 m di altezza; anch’essa cresce di preferenza lungo le coste e i greti dei torrenti, in terreni sciolti, spesso sabbiosi. Molto comune allo stato selvaggio, serve però anche come pianta ornamentale dei giardini – con i nomi di tamerice, tamerisco, cipressina, scopa marina – e per il rimboschimento di luoghi sabbiosi, come barriera frangivento e per il consolidamento delle dune, perché è capace di sopportare la salsedine e vegeta senza difficoltà in terreni salini, fino a un’altitudine di 800 m ca. La natura legnosa del suo tronco e il fenomeno di lacrimazione che la caratterizza trovano conferma in quanto Virgilio dice delle myricae nelle egloghe ottava, v. 54, e decima, v. 13.
Ma una pianta del genere si adatta solo in parte all’immagine iniziale dell’egloga, che prevede una netta contrapposizione fra la verticalizzazione delle silvae e l’orizzontalità delle myricae, e le cose non cambiano nemmeno supponendo che Virgilio avesse in mente la forma cespugliosa di alcune specie. Per questo, nelle myricae del passo si è proposto di identificare qualche pianta a basso fusto, come potrebbe essere l’erica campestre, o comunque qualche altro elemento della stessa famiglia. Se infatti associamo più comunemente l’erica alle brughiere della Scozia o dello Yorkshire (si pensi alla sua ricorrenza in Wuthering Heigths, 1847), le oltre seicento specie in cui il genere si suddivide hanno habitat e conformazioni abbastanza variegati, e molte di loro, come l’erica arborea e l’erica scoparia, sono diffusissime sui nostri litorali, specie quelli tirrenici.
Quanto all’egloga propriamente detta, essa, com’è noto, racconta la trasformazione del mondo a partire dalla nascita di un puer che resta innominato. Al fenomeno viene assegnata una precisa data, l’anno 40 a.C., l’anno del consolato di Asinio Pollione. La crescita del puer è seguita dal poeta per uno spazio di almeno trent’anni, quelli necessari a portarlo alla piena maturità. Nulla ci viene detto circa l’identità del bambino; ma l’indicazione cronologica, il riferimento iniziale ai carmina della Sibilla, la paideia che per lui viene ipotizzata ambientano certamente l’egloga in Italia, pur senza consentire ulteriori precisazioni. Il meccanismo messo in atto da Virgilio è fortemente innovativo: nella tradizione antica il progresso dell’umanità viene raffigurato di norma come un’inarrestabile decadenza e allontanamento da un’età eroica, e aurea, che sta alle spalle della nostra contemporaneità, e non davanti ad essa. Virgilio inverte l’ordine: l’età dell’oro delle origini sta per ripetersi, a breve giro di termine. Negli anni necessari al suo compimento, rimarranno certo alcune tracce della vita di ogni giorno, e quindi anche alcune attività lavorative, a travagliare la generazione di passaggio cui il poeta sente di appartenere. Fra queste attività non mancano quelle agricole, riassunte nell’incisiva formula del telluri infindere sulcos del v. 33. Anche il successivo venir meno di queste sopravvivenze è indicato con una serie di immagini agresti (vv. 40-45): la terra fertile (humus) non sarà più soggetta agli strumenti agricoli (non rastros patietur); la vite non dovrà più essere potata, azione che abbiamo già visto citata sia nella seconda che nella terza egloga; non servirà più arare i campi; né tingere la lana, perché gli animali al pascolo assumeranno spontaneamente i colori desiderati. A quest’ultima azione provvederanno coloranti naturali, come il murex (= la porpora), ed erbe particolari, come il lutum e la sandyx. Il primo termine individua la Reseda luteola, pianta pigmentosa, di color giallognolo, un’erbacea spontanea diffusa in tutta Europa, alta ca. 1 m, con fusto sottile e liscio, e fiori piccoli e variopinti. Il suo utilizzo come colorante giallastro (il lutum è propriamente la terra fangosa; Virgilio qui lo dice croceus, ‘color zafferano’) è ben noto fin dall’antichità.
Qualche problema maggiore pone invece la sandyx. Plinio ne parla infatti come di un colorante di origine minerale, non vegetale, e pensa a un errore di Virgilio. Gli interpreti antichi del passo la definiscono invece un’erba, in parallelo al lutum; per questo si è pensato alla Rubia tinctorum, o robbia, dalla quale si ricava il cosiddetto ‘rosso di garanza’, un pigmento molto usato in pittura, che si ottiene dalle radici della pianta essiccate, frantumate e bollite in acido.
Messo da parte il facile uso metonimico di nautica pinus per indicare una nave al v. 38 (i pini fornivano, effettivamente, un pregiato legname da costruzione), le altre immagini botaniche dell’egloga si concentrano intorno alla serie di doni e di fenomeni naturalistici che dovrebbero accompagnare la nascita e la crescita del puer. Una parte di essi è del tutto generica: al v. 23 si ricorda che la culla stessa del puer offrirà blandos flores, ‘fiori profumati’, ma indeterminati. Al v. 24 si dice che, per effetto della nascita, verranno meno le erbe velenose, ma anche qui senza specificare nessun esempio. Altri fenomeni sono più precisi: intorno alla culla la terra produrrà, spontaneamente e senza bisogno di intervento umano, edera, baccare, colocasia e acanto (vv. 18-20). Delle quattro piante citate già conosciamo l’edera e l’acanto. Il baccar compare qui per la prima volta, ma sarà citato anche nell’egloga settima, v. 27, come pianta apotropaica contro i sortilegi. Già Plinio era incerto circa la sua identificazione; oggi si tende a farlo coincidere con l’Helicrysum italicum, un fiore della famiglia degli astri, dal tipico colore giallo lucente (così scrive anche Gigliola Maggiulli, che però usa poi la denominazione di Helicrysum sanguineum, una margheritacea che è fra i simboli odierni di Israele). L’elicrisio fiorisce in tutto l’arco mediterraneo, specie in terreni vicini al mare, rocciosi e poco fertili. In alcune specie è coltivato anche nei giardini, come pianta a fioritura estiva, le cui corolle, essiccate, servono per corone di lunga durata (ideali, quindi, come dono da mettere intorno alla culla).
Nessuna incertezza circonda invece la colocasia, che già Plinio identificava con il kyamon, l’odierna Nelumbo nucifera, una ninfea diffusa in Egitto, comunemente nota come ‘fiore del loto’. Poiché anche l’acanto, cui si accosta, è, come sappiamo dalla terza egloga, pianta esotica, l’effetto virgiliano sta nell’unire nell’elenco piante comuni (edera e baccare), utili per farne corone, con piante ricercate, a impreziosire il dono. E’ possibile che, più che al fiore, Virgilio pensasse alle foglie della Nelumbo, che sono grandi fino a 60 cm, di colore verde brillante, fuoriuscenti dall’acqua per un metro e anche più. In questo modo, sarebbe ulteriormente giustificato l’accostamento con l’edera e l’acanto, piante non particolarmente pregiate per la loro fioritura.
Nascita e crescita del puer saranno accompagnate da una serie di adynata. Ovunque, ad esempio, fiorirà il prezioso amomo, v. 25, al momento diffuso solo nei territori orientali (in Assiria, dice Virgilio: come sappiamo dalla terza egloga, sarebbe più esatto dire in India). Al v. 28 si promette che tutta la campagna (campus) comincerà a biondeggiare (flavescet, un incoativo di forte effetto) di messi, indicate con l’espressione sineddotica mollis arista. Le aristae, o ‘reste’, sarebbero propriamente i filamenti rigidi con cui terminano le spighe delle graminacee, e quindi stanno qui per l’intera spiga, e la spiga per il grano: ciò che vuol dire il poeta è che il frumento sarà reperibile ovunque, senza bisogno di coltivarlo.
Subito dopo, Virgilio ricorda che l’uva rosseggerà da sola perfino sui cespugli spinosi, degli inculti sentes non meglio definiti. L’ultima immagine è però quella che più ci interessa. Le querce trasuderanno direttamente miele (roscida mella, ‘miele rugiadoso’) dalle loro dure cortecce. Le querce sono effettivamente piante spesso utilizzate dalle api come sostegno per i favi: sono ampie, resistenti, presentano al loro interno cavità ottime per la costruzione del favo. Ma Virgilio qui non vuole presentare un’immagine usuale e quotidiana, seppure amplificata nella sua misura, trasformando in fenomeno comune quello che, al momento, sarebbe solo un caso particolare. Quello che il poeta vuole piuttosto dire è che il passaggio attraverso le api, la loro nidificazione, la loro produzione del miele diverranno a breve, come nel caso del lavoro umano, completamente inutili, perché il prodotto finale, il miele, verrà realizzato spontaneamente, senza bisogno di nessuna lavorazione. E’ questa la prima intuizione della società delle api come immagine da utilizzare in parallelo all’immagine della società umana, secondo un procedimento che troverà maggiore sviluppo nel quarto libro delle Georgiche. Nella foto posta qui sotto, che conserva alcuni elementi di copyright, ma è offerta libera da diritti in internet, si vede, a ingrandirla bene, una grande quantità di api che coprono – quale che ne sia la ragione – il tronco di una quercia. Il prodigio dell’apparire improvviso di sciami su piante, siano o no delle querce, ricorre più volte nell’immaginario antico, e torna anche nell’Eneide, VII 64-67, fra i prodigi che annunciano l’arrivo di Enea e dei Troiani al re Latino.
© Massimo Gioseffi, 2019