L’egloga quinta presenta l’incontro di due pastori che, in amicizia e rispetto reciproco, decidono di celebrare con il loro canto un terzo personaggio, Dafni, che uno dei due riconosce addirittura come proprio maestro, e l’altro come figura comunque degna di lode, una sorta di nume tutelare di ogni comunità pastorale. Dafni era il protagonista del primo idillio teocriteo, nel quale veniva cantata la sua sofferenza d’amore, che lo aveva portato a morte. I due canti virgiliani proseguono l’opera di Teocrito: nel primo, il giovane Mopso rievoca il dolore degli uomini e della natura dopo la morte di Dafni; nel secondo, il più anziano Menalca celebra la rinascita e l’assunzione in cielo di Dafni, con la conseguente gioia della natura e della comunità pastorale. L’incontro fra i due pastori avviene per caso, ma il canto si svolge in un ambiente a noi ben noto, fatto di olmi mescolati a noccioli (v. 3 hic corylis mixtas inter consedimus ulmos), dove sono garantiti l’ombra e la frescura e non manca neppure una comoda grotta, la cui entrata è cosparsa di labrusca, v. 7. E’ questa la vite selvatica (vitis silvestris), della quale infatti sono messi in risalto i grappoli, rari, perché manca l’opera dell’uomo ad aiutarli nella crescita.
Nel corso dell’egloga distinguerei, come al solito, fra canto e cornice. Nella cornice non ritornano molti elementi agresti, se non sotto forma di immagine. Mopso promette un canto che, dice, vv. 13-14, avrebbe inciso nella corteccia di un faggio, pianta che sappiamo ricorrente nel paesaggio virgiliano e che, con la grotta, delinea quanto meno una serie di ondulazioni collinari. Menalca esalta la grandezza dell’amico, prima che questi dia inizio al suo canto, attraverso il paragone con un altro cantore, assente dalla scena, di nome Aminta, e osserva che Mopso eccelle sul rivale tanto quanto l’olivo predomina sul salice flessuoso, o la rosa sulla saliunca. Nel primo caso si tratta probabilmente di una superiorità qualitativa, che vede nell’olivo (qui ricordato come pallens. v. 16, in virtù del colorito del fogliame) la pianta totemica della civiltà mediterranea.
Il cromatismo viene messo in evidenza anche per la rosa (anzi, un intero roseto, v. 17), rossa, punicea, cui è contrapposta la saliunca, identificata di norma con la valeriana saliunca, una pianta erbacea, di basso fusto, dall’infiorescenza rada e poco significativa, che nasce spontanea in ambienti aridi e sassosi, specie di montagna.
Altre metafore sono più generiche. Una volta terminato il canto di Mopso, Menalca lo proclama piacevole come dormire, stanchi, nell’erba di un campo (in gramine, v. 46). Mopso ricambia il favore, con un’analoga serie di immagini (vv. 82-84), nessuna delle quali tocca però l’ambito vegetale. Questo ritorna, solo superficialmente, nel riferimento allo strumento musicale adoperato da Menalca, un flauto, denominato, v. 85, come “canna”, cicuta; e nella descrizione del bastone pastorale con il quale Mopso contraccambia l’amico, vv. 88-90, lavorato e reso elegante dalla disposizione simmetrica dei nodi.
Diverso è il caso dei canti. Mopso ricorda una natura addolorata, fatta di animali che non vanno più al pascolo, di ninfe in lutto (cui i noccioli, coryli, sono chiamati a fare da testimonio, v. 21), di montagne incontaminate e boschi intonsi che piangono anch’essi l’evento crudele, v. 28. Dafni è celebrato come un protos heuretes, un inventore/civilizzatore. E’ l’allievo di Pan, v. 59, che ha introdotto fra gli uomini il culto di Bacco, le feste a quel dio tradizionalmente associate, e il tirso, il tipico bastone delle Baccanti.
L’eccellenza di Dafni nel mondo pastorale è segnalata da una serie di immagini di maniera, vv. 32-34. Dafni era di ornamento alla comunità dei pastori, come le viti lo sono alle piante che le sostengono, i grappoli d’uva matura alle viti stesse, le spighe al campo coltivato. Anche il dolore per la sua scomparsa è espresso da una metafora agricola. Ai campi sono stati affidati, con la semina, grandia hordea, v. 36, ‘ricchi chicchi di orzo’, e invece ora, al loro posto, sorgono erbacce infestanti, v. 37, infelix lolium e steriles avenae. La semina è sempre un atto di fiducia, qui mal riposta. Hordeum in realtà è un termine generico, che nella classificazione moderna indica una trentina circa di specie, tutte graminacee. E’ difficile dire a quale si riferisse esattamente Virgilio. Certo si tratta di chicchi selezionati e ben scelti, sui quali era riposta la massima fiducia, che, senza l’evento luttuoso e imprevisto descritto nel canto, non sarebbe stata mal risposta. Quanto alle steriles avenae, non vanno identificate con l’avena coltivata, ma semmai con l’avena barbata, una pianta erbacea alta 30-80 cm, che cresce negli incolti e ai margini delle vie, con spighe setolose, dai chicchi piccoli e poco fruttiferi, quindi, ai fini della commestibilità. Allo stesso modo, il lolium sarà, con ogni probabilità, il lolium temulentum, ossia la zizzania, una graminacea infestante, con fiori a spiga rossa, che tende a mescolarsi e a confondersi con il grano – ma i cui chicchi hanno carattere intossicante.
Allo stesso modo, anche nel settore dei giardini e dei fiori da giardino, alla viola (mollis, ‘cedevole’, ovvero di basso fusto) e al narciso (purpureus, ‘rosseggiante’), che già conosciamo dalle altre egloghe, per effetto della morte di Dafni si sostituiranno ora il carduus e il paliurus dalle spine acute (vv. 38-39). Nel primo caso, c’è incertezza fra i commentatori virgiliani, che hanno identificato il carduus ora nella centaurea solstitialis (il cosiddetto “fiordaliso giallo”, un’asteracea spinosa, di carattere erbaceo, raramente superiore ai 5 dm, di carattere spontaneo e, anzi, spesso invasiva), ora nel cirsium arvense, il cardo dei campi italiano, che è sempre un’asteracea, più alta della precedente, con fiori compresi tra il rosa e il viola, anch’essa di carattere infestante. Il paliurus è invece comunemente identificato nella marruca, la pianta dalle cui spine, secondo tradizione, fu fatta la corona di Cristo. Si tratta di un arbusto, diffuso in tutta la macchia mediterranea, specie in ambiente collinare, che può essere alto anche qualche metro, con foglie difese da piccole, ma spiacevoli spine. Oggi relativamente poco diffuso nelle nostre campagne, un tempo era molto usato per le siepi di confine, sia per la presenza delle spine, sia perché pianta mellifera.
Più generiche sono le immagini del secondo canto, quello di Menalca. Una parte di esse risponde simmetricamente a quanto già detto da Mopso. Ritroviamo perciò silvae e rura che gioiscono per la rinascita e la nuova condizione divina di Dafni (v. 58); gli intonsi montes che lanciano grida di gioia per quell’avvenimento (vv. 62-63); generici arbusta che proclamano la divinità del personaggio (v. 64). Nelle feste pastorali per il nuovo dio, sono presenti crateri d’olio tra le offerte sacrificali (v. 68), e vino pregiato, di Chio, per le libagioni dei pastori (v. 71). Queste avverranno in casa durante l’inverno, all’ombra di un pergolato durante l’estate, indicata con la facile metonimia della presenza delle messi (v. 70). Ai vv. 76-78 ritroviamo un costrutto ormai noto e visto già più volte. Gli onori e le cerimonie per Dafni rimarranno in vigore fintantoché la natura seguirà il suo corso – la Natura, come sappiamo, è sempre il campo usato per indicare il ripetersi garantito e incontrovertibile di determinati fenomeni (rimando per questo a un precedente post di questo stesso sito, https://sites.unimi.it/latinoamilano/immagini-di-natura/ ). Qui l’idea è espressa con una serie di immagini che stanno fra l’agreste e lo zoologico: il cinghiale è animale da montagna, il pesce vive nell’acqua, le api si nutrono di preferenza di timo – che, come sappiamo dalla seconda egloga, è pianta profumata, e quindi particolarmente attraente per gli insetti e utile dunque come pianta mellifera – e le cicale di rugiada. Le cicale naturalmente non si nutrono di rugiada, ma di succhi vegetali e della linfa degli alberi. Quella usata da Virgilio è però un’immagine callimachea (fr. 1, 32-34 Pfeiffer), dietro alla quale sta la tradizione, già platonica (Fedro, 262D), della cicala come antico essere umano dimentico di provvedere al proprio cibo per amore verso le Muse.
© Massimo Gioseffi, 2019