Torno a occuparmi di Arcadia, prendendo spunto da una giusta osservazione presente nel commento alle Bucoliche di Virgilio curato da Andrea Cucchiarelli (Roma, 2012). Parlando di Arcadia, lo studioso osserva che dovremmo domandarci che cosa sapevano di essa i lettori di Virgilio, fermo restando che per un Romano del I sec. a.C. doveva trattarsi, probabilmente, di una terra vagamente esotica, poco turistica, nota al massimo di nome o giù di lì. Cucchiarelli stende un primo elenco di informazioni, che qui vorrei cercare di riprendere e ampliare. Mi sembra infatti che qualsiasi ragionamento intorno all’Arcadia virgiliana debba partire da una domanda di questo tipo, anche se la risposta è difficile da ricostruire, se non addirittura impossibile. Proviamoci lo stesso.
L’Arcadia è una regione del Peloponneso centrale, prevalentemente montuosa, che oggi offre alcune rinomate località sciistiche. Molto boschiva, ricca di cipressi e querce, ha in queste il proprio simbolo totemico. Dalla sua conformazione geografica deriva l’idea di una regione conservatrice, come conservatore è, per via di Sparta, un po’ tutto il Peloponneso; ma, se possibile, ulteriormente tale, a causa del maggiore rigore morale riconosciuto di solito alla campagna rispetto alla città, alla montagna rispetto ai territori di pianura. Per i Greci la montagna è un mondo oscuro, il luogo della ferinità: gli abitanti dell’Arcadia vivono perciò nell’immaginario comune a uno stadio primitivo di civiltà. Per questo sono dediti alla pastorizia, attività resa del resto inevitabile dalla configurazione del loro territorio; per questo, sono esclusi da quel processo di civiltà che, nel bene e nel male, ha caratterizzato la restante umanità, che fu nomade o seminomade all’inizio; poi sedentaria e agricola; infine, urbanizzata e in lotta feroce fra comunità e comunità (è questa l’immagine del progresso che offre un biografo tardo antico di Virgilio, Elio Donato). L’Arcadia è invece vista come il luogo dove non esiste ancora la proprietà privata, o quanto meno non è ancora predominante, non è disegnata e imposta sul terreno, oltre che sulle cose, perché le greggi hanno naturalmente sempre un padrone, ma le terre pastorali sono prive di staccionate e mantengono confini incerti. Viene in mente, come possibile parallelo, il bel film di Elia Kazan, del 1947, Il mare d’erba (The Sea of Grass, da un romanzo di Conrad Richter), che giocava proprio sul motivo del conflitto agricoltori/allevatori nel Nuovo Messico del 1880, fondando lo scontro fra le due categorie su questa contrapposizione “terre aperte al pubblico utilizzo delle mandrie/terre chiuse per la coltivazione dei raccolti”, e facendone poi occasione, come è nella tradizione cinematografica, di un melodrammone familiare. In conseguenza di quanto detto, l’Arcadia è vista dagli antichi come la terra della pace che da questa situazione deriva, perché non ci sono beni da difendere né contro il vicino né contro il forestiero; è la terra più prossima alla mitica età dell’oro, insomma, prima dell’insorgere della civiltà e dei suoi mali.
Il conservatorismo di questa regione si segnala per un altro elemento: l’Arcadia ha divinità proprie, a cominciare dalla declinazione specifica di Zeus Liceo, che ha culti di natura segreta, che ancora Pausania, 8, 38, 6-7, due secoli più tardi di Virgilio, rifiuterà di svelare. Identico discorso si potrebbe fare per Apollo, Liceo pure lui, o per le altre divinità tipiche dell’ambito pastorale, in primis Pan, con tutto il corredo di storie che a lui si riconnetteva. È invece incerto se i lettori di Virgilio conoscessero davvero la topografia dei luoghi di culto legati a queste divinità, descritti nella Periegesi da Pausania, e confermati dagli scavi archeologici americani dell’ultimo decennio. Ancora più improbabile è che conoscessero la storia della regione, o che se ne dessero pensiero: a lungo autonoma, l’Arcadia era stata poi assorbita nell’orbita di Sparta. Aveva avuto un momento di gloria dopo la battaglia di Leuttra (371 a.C.), attraverso la fondazione di Megalopoli (370) e della Lega Arcade, appunto, o come componente importante della successiva Lega Achea (come tale ne parla Polibio). Presto rientrata nell’orbita macedone, e quindi romana, aveva dato qualche filo da torcere a Roma (lo ricorda ancora Livio), ma da tempo aveva perso ogni interesse politico. Difficilmente, poi, i lettori virgiliani si saranno resi conto che il greco d’Arcadia ha particolarità sue proprie, quelle che oggi fanno parlare di un dialetto arcado-cipriota, una variante linguistica attestata in due aree periferiche di incerta assimilazione, a conferma della sopravvivenza di antiche popolazioni non del tutto sommerse dall’invasione unificante dei Dori – ancora una volta, un lascito dell’ambiente montano e della più facile sopravvivenza di antiche forme di vita entro i confini protetti delle valli. Quanto alla geografia, il Menalo, il Liceo, il Partenio erano le sue vette più famose, benché solo la prima tocchi i 2000 metri; Mantinea la località più celebre, non tanto per la battaglia del 418 (vittoria di Sparta su Atene e Argo, nella serie infinita della guerra del Peloponneso), quanto per quella del 362 (vittoria di Tebe su Sparta e luogo di morte di Epaminonda, fatti ricordati pochi anni prima di Virgilio nella biografia del generale tebano scritta da Cornelio Nepote). Oltre a Leuttra, erano certo note Tegea, già citata in un frammento di Pacuvio, Orcomeno, la palude di Stinfalo e la selva dell’Erimanto, luoghi nobilitati dalle imprese di Ercole. Prodotto tipico dell’Arcadia erano gli asini, di una razza particolare, avvezza alla fatica, conosciuta già da Plauto (nell’Asinaria). Fra le letture diffuse dalla scuola, e già dalla scuola antica, vanno ricordate la storia di Aglao di Psofide, l’uomo più felice della terra, che secondo Valerio Massimo e altri realizzò l’ideale di vivere tutta la vita nel suo e del suo, non dovere niente a nessuno, morire circondato dall’affetto dei figli; e il brano di Erodoto, 6, 105-106, secondo cui Fidippide, o Filippide, nel 490 a.C. stava percorrendo i 200 km ca. che separano Atene da Sparta per sollecitare l’intervento dei Lacedemoni in aiuto degli alleati attici, in prossimità dell’invasione persiana, quando, lungo le pendici del Partenio, incontrò Pan, che chiese nuovi culti in proprio onore, garantendo la vittoria degli Ateniesi in contraccambio. Quale che sia il significato del racconto, esso è alla base tanto della confusione (già presente in Luciano) fra questo Fidippide e l’anonimo soldato che percorse i 40 km fra Maratona e Atene per annunciare ben altro avvenimento; quanto del culto ateniese per Pan, per il quale fu subito eretto un altare ai piedi dell’Acropoli e furono introdotti opportuni riti e gare di canto, da taluni ritenuti una possibile origine dei canti pastorali. In quest’ordine di idee si inseriscono anche l’attenzione all’Arcadia offerta da certa epigrammatica greca – una fonte che sempre più riteniamo importante per le Bucoliche virgiliane – e la notizia di Polibio relativa alla diffusione del canto fra gli Arcadi, alla quale in epoca moderna tanta importanza è stata assegnata nel celebre libro di Bruno Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino 1951 (ma già Hamburg, 1946). Polibio 4, 19-21, in un passo in realtà più citato che letto nella letteratura successiva a Snell, dice che gli Arcadi hanno fama di umanità e ospitalità, e di pietà verso gli dèi, messa in dubbio da un massacro di guerra da lui rievocato. Un atto di tale ferocia si spiega però, a detto dello storico antico, con l’abbandono della pratica della musica come disciplina formativa, un tempo seguita da tutti i giovani arcadi, dalla fanciullezza fino ai 30 anni circa. La musica, afferma ancora Polibio, si era del resto resa necessaria in una regione montuosa e fredda, fatta di agglomerati distanti fra loro e isolati dal mondo, in quanto unica, possibile forma di aggregazione sociale, attraverso feste e cerimonie ricche di canti e di danze.
Dall’ottavo libro di Plinio i lettori romani successivi a Virgilio (ma le notizie erano o no circolanti anche in tarda età repubblicana? Impossibile dirlo) avrebbero appreso altre cose sull’Arcadia: i culti per il lupo, ad esempio, animale sacro, venerato e temuto, con tanto di strani riti al limite della licantropia; oppure, la presenza di sacrifici umani, di nuovo prova di una ferinità e una religiosità accesa, ma particolare. Altro ancora potevano conoscere i Romani del tempo di Virgilio: la presenza di una comunità arcade sulle pendici antiche del Palatino, fin da una preistoria che si perde nel tempo, rievocata però, oltre che da Virgilio nell’ottavo libro dell’Eneide, dall’annalistica arcaica (Gneo Gellio e, probabilmente, Cassio Emina), da Varrone, Livio, Dionigi d’Alicarnasso e altri ancora. Il legame fra l’Arcadia ed Enea, di cui sarà traccia nell’Eneide la presenza non mai ben spiegata di un Arcade nel seguito di Enea, quel Patrone che viene …ab Arcadio Tegeae sanguine gentis (Aen. 5, 298-299), aveva però anche altre origini. In Arcadia esiste un monte di nome Anchisia, che la tradizione aveva collegato, ed era facile farlo, con il personaggio mitologico di Anchise. Da qui due varianti: una, che Anchise fosse morto alle sue pendici e lì fosse stato sepolto, lasciando il proprio nome alla località; l’altra, che Anchise fosse sì passato da quelle parti, così da lasciare il proprio nome al monte, ma in un diverso momento della sua esistenza, in giovinezza. Per spiegare questa possibilità, il mito, cui anche Virgilio aderisce, parlava allora di una deviazione di Priamo e del suo seguito in direzione dell’Arcadia, in occasione delle nozze di Esione, sorella del re troiano, a Salamina, o di una successiva visita a quella: deviazione che Virgilio trasforma in occasione per far nascere l’amicizia di Anchise con Evandro, il capo della comunità arcade stanziatasi poi nel Lazio, rinsaldata dal successivo incontro di Enea con Evandro, dopo il trasferimento di questi sulle pendici del Palatino. Quanto alla comunità arcade, la sua presenza nel territorio della futura Roma è vista da tutte le fonti che vi fanno cenno come un fatto normale e acclarato, un esempio di quella commistione di popoli che Roma riconosceva alle spalle della propria fondazione. In forma diversa, ma non troppo diversa, vanno ricordati la discendenza dei Sabini da Sparta, nota a Plutarco e a Dionigi d’Alicarnasso, oppure l’arrivo della gens Tarquinia da Corinto, ricordata da Cicerone. Nell’uno come nell’altro caso si trattava sempre di località del Peloponneso, forse a sottolineare il rapporto ideale avvertito da Roma con quella terra, terra di valori e di virtù militari e religiose, nelle quali i Romani potevano in larga parte riconoscersi, e delle quali sentirsi fieri (ricordo solo che il nome dei Sabini è connesso da Plinio, nat. 3, 108, a sebesthai, «venerare gli dèi»).
Stabilito ciò, resta da chiedersi che cosa i lettori di Virgilio potevano sapere dell’Arcadia attraverso Teocrito. Nell’opera del poeta greco l’Arcadia è nominata tre volte: nel secondo idillio, vv. 48-49, come zona di produzione dell’ippomane (un’erba magica); nel settimo, vv. 106-108, in relazione ai culti che vi si celebravano per Pan; nel ventiduesimo, v. 157, come terra dai ricchi pascoli – è questo, del resto, l’idillio che celebra due “eroi” peloponnesiaci per eccellenza, Castore e Polluce. Una sola volta sono citate le montagne dell’Arcadia. Si tratta dell’idillio primo, ambientato chiaramente alle pendici dell’Etna stando a quanto si dice nei vv. 65-69, ma nel quale Pan è chiamato in soccorso da Dafni morente, che lo riconosce come dio cantore per eccellenza nel mondo dei pastori, e ai vv. 123-126 lo invita perciò a venirgli in aiuto, abbandonando il Menalo e il Liceo. Anche altrove, nel corpus teocriteo, si fa menzione di questa eccellenza di Pan, che sempre avrebbe diritto, per antonomasia, al primo premio nelle gare di canto (1, 3); che regola da sovrano riconosciuto gli altri pastori, e non ama che essi cantino quando lui non vuole, perché è stanco o di ritorno dalla caccia (1,16-18); ma che è pronto ad aiutare chi lo venera (5, 58-59), ed è addirittura disposto a farsi suo complice, se necessario, nelle conquiste amorose (7, 103-105). L’Arcadia, dunque, per Teocrito non è una terra di canti o di pastori cantanti: è la terra di Pan, dio pastorale e bucolico per eccellenza; ed è semmai Pan, non gli Arcadi, che si riconnette in qualche misura a un’eccellenza nel canto. Di questo, i lettori di Virgilio dovrebbero sempre tenere conto…
Bibliografia minima
Sull’Arcadia:
A. Cucchiarelli, Publio Virgilio Marone. Le Bucoliche, Roma 2012, pp. 23-25;
P. Gagliardi, Commento alla decima ecloga di Virgilio, Hildesheim-Zürich-New York 2014, pp. 44-49;
M. Ferrando, Il regno errante. L’Arcadia come paradigma politico, Vicenza 2018.
Sul dio Pan:
Ph. Borgeaud, Recherches sur le dieu Pan, Rome 1979;
M.C. Cardete del Olmo, El dios Pan y los paisajes pánico. De la figura divina al paisaje religioso, Sevilla 2016.
© Massimo Gioseffi, 2019
A proposito di terre d’uso comune o civico, come si dice per alcune comunità nostrane, vale la pena citare l’Omero sardo, Melchiorre Murenu, che si oppose all’editto sulle chiudende, imposto ai pascoli alla fine del Settecento, con questi versi, diventati poi patrimonio folclorico dell’Isola:
Tancas serradas a muru,
Fattas a s’afferra afferra,
Si su chelu fit in terra,
che l’aian serradu puru
Tutte notizie assai interessanti che aiutano a capire che cosa fosse l’Arcadia per i lettori antichi, di Virgilio soprattutto. Ma che cosa sia l’Arcadia delle Bucoliche, quanti e quali significati racchiude, per me rimane sempre un mistero affascinante. Luogo di pace e serenità, l’illusione che questa pace e questa serenità da qualche parte esistano, oppure un luogo che non sfugge – ahimè nemmeno lui – all’angoscia e al dolore? All will be revealed? Un giorno, forse, ma quel giorno Virgilio diverrà un poco meno interessante. ….
Beh, il compito assegnato ora si fa particolarmente alto, ma comunque sì, lo confesso, sono previste altre puntate…
Sono molto curiosa di leggere il prosieguo, anche se, ne sono convinta, sarà difficile fare luce sul mistero. See you soon, then!