Il terzo ciclo all’interno del liber tibulliano dovrebbe essere, a rigor di logica, quello dedicato a Nemesi. La donna compare per la prima volta nella terza elegia del secondo libro e in forme più o meno fuggevoli occupa di sé tutti i componimenti da lì alla fine del libro, incluso il numero cinque, di fatto dedicato alla assunzione del figlio di Messalla nel collegio dei quindecimviri (ma in un fuggevole accenno finale, Tibullo sostiene di dover interrompere la composizione e non poter cantare oltre il giovane Messalla, perché troppo preso dal pensiero di lei). Eppure, quello che sosterrò ora un po’ provocatoriamente è che non esiste un vero ciclo di Nemesi, perché la donna, fedele al suo nome e alla funzione vendicativa che il suo nome suggerisce, in realtà non conosce nessuna delle evoluzione e dei passaggi previsti nelle puntate precedenti di questa rassegna tibulliana. Nemesi da subito, fin dalla sua prima apparizione, è un personaggio avido e desideroso di dona e di praeda. Questa immagine non conosce evoluzione, non conosce variazione. Delia, come abbiamo visto, dopo una menzione quasi casuale nella prima elegia del primo libro, diviene una figura dai tratti ben definiti, una sua storia, una continua interrelazione con il poeta, un’evoluzione in sé e nei suoi rapporti con Tibullo, che reagisce al di lei evolversi ma è anche motivo del di lei evolversi. Stessa cosa si può dire per Marato, pur nella specificità di quella situazione, e nella maggiore compressione dei tempi del suo sviluppo. Nemesi è invece sempre uguale a sé stessa. Nulla si può dire di lei, della sua vita, della sua persona, tranne che per due dettagli fugaci e non ben sviluppati che appaiono, guarda caso, nell’elegia conclusiva del ciclo e del libro: uno è la sua natura fors’anche onesta, ma viziata dalla presenza della solita ruffiana (un’idea che Tibullo aveva già sviluppato nel caso di Delia, e sulla quale quindi ora non insiste troppo, ma che, stando nel finale del libro, ci consegna il solito Tibullo incerto e titubante, che anche dopo aver preso risoluzioni drastiche è sempre disposto a tornare sulle scelte fatte); l’altro è il riferimento a una sorella morta in circostanze drammatiche. Un dettaglio, questo, che è di quelli che non si inventano e non appartengono a un topos narrativo: cosicché è l’unico dato reale, o almeno realistico, della biografia di questa donna, l’unico elemento che ci assicura trattarsi di una persona fors’anche davvero esistita, e non solo di un simbolo. Ma non è come persona reale che la tratta normalmente Tibullo: Nemesi per lui è una funzione narrativa, e le funzioni narrative, si sa, non hanno storia, non hanno evoluzione.
Chi è allora il vero protagonista del libro? Ecco la mia idea: sono i rura, intesi come immagine della campagna che il poeta si è autoproiettato all’interno delle sue elegie, e che ama proiettare al lettore. Rispetto a questo tema, Nemesi è solo subordinata: è l’elemento necessario a creare l’evoluzione del racconto e a dare alla storia una parvenza esteriore di vicenda amorosa, come si compete all’elegia. Se sette sono, come indicato nelle puntate precedenti, i passaggi obbligati di una buona storia d’amore, Nemesi non conosce che gli ultimi due, o meglio conosce solo la sesta tappa (quella della diffidenza reciproca), perché anche la settima non è così sicura (il discidium forse ci sarà, forse no; e comunque, se ci sarà, non potrà richiamarsi nostalgicamente a un tempo felice che non è mai esistito). Non cosi per i rura. Nel primo libro essi sono un ideale di vita, entro il quale naturalmente deve starci anche un amore a-problematico con una puella che eserciti le funzioni della perfetta domina rustica e si faccia compagna di vita; poi, essi diventano il contenitore ideale per la specifica storia d’amore con Delia (I 2 e I 5), vista prima come possibile – finché Delia è una sposa possibile – poi come impossibile e perduta, quando Delia si rivela inaffidabile, dedita solo alla ricerca di un guadagno immediato. Ma essenziale è quanto ho appena detto della elegia proemiale: nella quale i campi sono un contenitore di per sé stessi, un luogo dove sarebbe bello vivere, meglio ancora se con una domina da tenere al fianco, specie nelle lunghi notte invernali; elemento tuttavia non indispensabile, dal quale non dipende la bellezza della vita in campagna, anche se la corona e completa. La bellezza dei campi sembra qui piuttosto corrispondere all’ideale antico di una vita semplice ma autosufficiente, in una proprietà di dimensioni sufficienti per avere pascua, messes, una silva e, soprattutto, una pubes agrestis (I 1) che poi si specificherà come turba vernarum (gli schiavi nati in casa, I 5 e II 1: quindi, anche i loro genitori dovevano essere schiavi domestici e la familia si rivela abbastanza ampia per esentare il dominus dal lavoro in prima persona, salvo che come vagheggiamente e possibilità non concreta, da fare interdum e senza troppa convinzione).
L’elegia I 1 non racconta una realtà, ma un sogno, vuoi perché Tibullo vive in città (come si apprende dall’elegia successiva: e lì sta anche Delia, tutt’altro che la rustica domina vagheggiata in precedenza), vuoi perché il poeta è al seguito di Messalla, come gli capita più volte nel corso del liber. L’elegia delinea un traguardo, non un dato biografico: qualcosa di inattuato (non però di inattuabile: le forme al congiuntivo sono sempre al presente), verso il quale aspirare, ma che è lontano da sé. Le elegie per Delia specificano meglio questa idea, subordinando la conquista della campagna alla conquista di Delia, cosicché il fallimento della storia amorosa provoca l’allontanamento dalla vita nei campi. Questi tornano a farsi presenti nell’elegia I 10, l’ultima del primo libro, che chiude così circolarmente il percorso iniziato nell’elegia proemiale. Qui Tibullo si dice richiamato in guerra (v. 13 nunc ad bella trahor), e ciò lo pone di fronte al dilemma se abbandonare o meno ogni sogno di vita in campagna. Di fronte alle due possibilità, opta per mettere da parte la vita militare. Sceglie la campagna e la pace che (Vergilius docet) alla campagna normalmente si associa. Diciamo che questo potrebbe essere, stando allo schema indicato nelle puntate precedenti, il momento della scelta per i campi, non solo quello del loro vagheggiamento amoroso (I passo, coincidente qui con l’elegia I 1), ma anche del loro “corteggiamento” (II passo) e del desiderio di conquista.
Nell’elegia proemiale del secondo libro (II 1) il tono cambia totalmente. Ora Tibullo è un vero proprietario terriero, che vive fra i suoi poderi, ne controlla la coltivazione, vi compie le dovute cerimonie religiose, estende perfino il suo ruolo ai vicini, che invita alla festa con il fare di un patronus che si rivolge ai suoi clientes. Se anche il campo è povero (l’ideale dei pauca iugera, del relictum solum, che era proprio già di Virgilio) basta a soddisfare i suoi bisogni e a conferirgli dignità. E’ il momento della pienezza della passione. Non ci sono ombre in questo ritratto; e non ci sono nemmeno donne. C’è una villica senza nome, che com’è giusto accompagna il dominus nelle cerimonie e le completa per la parte di sua competenza. Ma che non è né Delia né Nemesi: è la giusta e santa madre dei legittimi figli, quella che Delia avrebbe potuto divenire, ma Nemesi non potrà mai essere. Perfino Amore, il dio, in questo contesto diventa inoffensivo. Egli, dice Tibullo, è nato in campagna (una variazione mitografica, per quanto ne sappiamo), e quindi risparmia il mondo dei campi. Non che non vi si faccia sentire, ovviamente. Ma agisce senza drammi, senza ferite. Tutto è pacificato, perfino lui.
Su questo grande idillio piomba poi Nemesi. Ci piomba dall’esterno, come il dives amator di Delia, come Foloe nella vita di Marato. Con Nemesi, piomba anche una scoperta inattesa: anche i campi sono soggetti a quella “legge economica” che si era vista per Delia e per Marato. Nella prima elegia che la nomina (II 3), Nemesi è infatti in campagna. Ma non la campagna dell’Io poetico, bensì quella di un altro, un rivale, un dives (anzi ditior) amator, che in questo caso è un ditior possessor. Se i campi possono essere considerati un soggetto economico, motivo per attirare puellae, possibile fonte di praedae e di dona, ne consegue che chi più ne possiede, più ha speranze in amore. La campagna, cioè, non è più un rifugio e una garanzia di pace: lo è solo se è ricca. La campagna è una (fonte di) praeda per le puellae insaziabili, non l’innocuo recipiente di amori spassionati. E’ fonte di dona, che non possono però più essere i semplici frutti di una terra più o meno povera: devono essere i soldi necessari a comprare vesti, oro, gioielli, prodotti cosmetici. E dunque, devono produrre denaro, o convertirsi in denaro. Fine dei pauca iugera, fine dei sogni (virgiliani) di autarcheia e di inemptae dapes. Fine anche della dignità sociale conferita – secondo il sentire romano – solamente dal possesso dei campi!
Per ottenere denaro liquido, i campi vanno venduti: è quello che, paradossalmente, Tibullo propone nell’elegia I 4. E poco importa se così se ne vanno anche la libertà e la dignità ereditate dagli avi; convertiti in denaro liquido, i campi possono essere re-investiti in vesti, oro, gioielli ecc. Tutte le cose che Nemesi (e tutte le Nemesi del mondo) possono davvero desiderare. Nell’ultima elegia (II 6) i campi non tornano praticamente più, se non come immagine figurata. Il discidium da loro si è ormai consumato. Tibullo torna a porsi il problema se la sofferenza amorosa possa essere vinta con la vita militare: lo stesso dilemma che chiudeva il primo libro, ma che ora riceve una risposta opposta alla precedente. Sì, la milizia è una buona cura; non per sé, che non la saprà mettere in atto, ma per altri sì. Del potere dei campi, della pace, della vita tranquilla e sicura qui non si parla. Tibullo sceglierà di restare vicino a Nemesi, perché sa di essere debole e perché come tutti gli amanti è dominato dalla Speranza – una divinità che illude sempre, ma alla quale non sfugge nessuno: non lo schiavo che canta alla catena; non il pesce che si lascia prendere all’amo; non il contadino che affida i semi ai solchi. committere semina sulcis è frase tibulliana, ed era frase virgiliana. E’ l’atto stesso della coltivazione, atto di speranza e di fiducia. Che nella prima elegia del primo libro, all’inizio del percorso, era vista come una realtà sicura e garantita: si semina, e ne proviene una messe; si semina, e si attende la vendemmia. Qui, invece, viene negata la legge stessa; peggio, la si irride; peggio: la si trasforma in exemplum di un comportamento folle e irrazionale, e poco importa che sia la scelta del poeta, la sua debolezza estrema. Corrotti dall’oro e dall’umana cupidigia, i campi sono divenuti qualcosa di estraneo da sé, qualcosa da cui allontanarsi. La distanza dalla prima elegia, e dall’ideale romano, non potrebbe essere maggiore.
© Massimo Gioseffi, 2016