Riprendo il ciclo di post dedicati all’Arcadia, con una prospettiva un po’ inusuale, almeno a occhi europei. Trovatomi a New York per un convegno su temi bucolici, ho scoperto l’esistenza di una scuola pittorica che si chiama “Hudson River School”, un movimento artistico sviluppatosi in America nel cinquantennio che va, grosso modo, dal 1825 al 1875, in parallelo all’opera di letterati come Henry David Thoreau (1817-1862) e Ralph Waldo Emerson (1803-1882). Devo all’amico Carlo Bottone, allora risiedente a New York, sia la visita alle sale del Metropolitan Museum dedicate a questa scuola pittorica, sia una gita (che molto consiglio a chi si trovasse da quelle parti) lungo le rive dell’Hudson, un piacevole complemento e diversivo dal caos organizzato della metropoli americana. Un ricordo per me indelebile e graditissimo.
A chi volesse notizie precise e scientifiche su quella scuola pittorica, segnalo gli ottimi siti del Metropolitan Museum – che offre 54 dipinti, tutti commentati, e altro materiale informativo – e della Wadsworth Collection (un museo di Hartford, nel Connecticut), consultabili alle pagine https://www.metmuseum.org/toah/keywords/hudson-river-school/ e https://www.thewadsworth.org/collection/hudson-river-school/. Io qui non voglio esibire una dottrina che non ho, e che del resto in rete si può recuperare abbastanza facilmente. Dalle considerazioni intorno a quei dipinti – quelli che ho visto, quanto meno – vorrei ricavare tre suggestioni, che a me paiono tre forme del riuso arcade operato dai pittori di quella scuola.
Il primo caso: ci sono dipinti che, pur rappresentando paesaggi più o meno reali della Valle dell’Hudson, sarebbero illustrabili con versi virgiliani, anche se la loro origine non è mai da cercare in Virgilio ma in una (presunta) osservazione dal vero e/o in una riproduzione di modelli pittorici inglesi – Turner e Constable in prima linea. Dico presunta osservazione dal vero, sia perché i dipinti raffigurano, quando hanno un’indicazione precisa, più i luoghi vicini alle sorgenti del fiume, nella zona delle Adirondack Mountains, che non quelli nei dintorni di New York, e io quei luoghi non li ho visti; sia perché, pur conservando ancora oggi la valle, man mano ci si allontana da Manhattan, un aspetto prettamente bucolico, il paesaggio in centocinquanta anni si è comunque alterato, ed è difficile capire quanto quei dipinti siano fotogrammi reali, e quanto pesi su di loro il velo dell’idealizzazione, assai forte nella poetica di questi pittori. Ecco così, ad esempio, una perfetta illustrazione del virgiliano ipsae lacte domum referunt distenta [ubera] capellae, IV 21, nel dipinto di Asher Brown Durand intitolato River Scene e datato 1854 (in realtà sono boves e non capellae, ma il resto cambia poco); oppure, ecco l’ille meas errare boves, ut cernis di I, 9, raffigurato dal quadro Autumn Oaks di George Inness, ca. 1878; il grandioso panorama proposto da The Beeches, ancora di Durand, datato 1845, in cui il pastore che, giustamente, agit gregem secondo i precetti virgiliani richiama di nuovo in mente la prima egloga, pur ridotto com’è a elemento miniaturizzato sullo sfondo di questi alberi maestosi; o, sempre di Durand (1853), le mucche che si abbeverano inter flumina nota di High Point, Shandaken Mountains (una località dello Stato di New York, vicino alla attuale città di Olive).
Vengo alla seconda tipologia di intervento, che è quella della illustrazione di presunti luoghi geografici dell’Arcadia, in genere più facilmente inventati che conosciuti dal vero (la Grecia di inizio Ottocento non è ancora una meta turistica troppo sicura). Ecco ad esempio Evening in Arcady di Thomas Cole (1845); oppure, dello stesso pittore, ecco Dream of Arcady, del 1838. Sono paesaggi ideali, non diversi da quanto avevano fatto, con l’Italia, i Poussin e i Lorrain in un’altra, più antica stagione, e non diversi da quanto, per certe regioni dell’Italia (la valle di Tivoli e la Sicilia) fanno ancora gli stessi pittori della scuola dell’Hudson. Riporto, a titolo di esempio, una veduta di Taormina dove, sotto al maestoso panorama dell’Etna, si alternano rovine vere e di invenzione (l’autore è sempre Thomas Cole, 1843).
Il nome di Thomas Cole, 1801-1848, riporta alla terza e forse più importante tipologia. A lui si deve un ciclo pittorico di cinque dipinti, pensati unitariamente, con il titolo di The Course of the Empire, 1833-1836. I quadri sono monumentali (100 cm per 161, ma quello centrale 130 per 193 cm) ed erano stati pensati per essere disposti in un pannello che li racchiudesse tutti, da esibire poi nella casa del committente, tale Luman Reed. Ognuno ha un sottotitolo: Stato selvaggio; Stato arcadico o pastorale; La consumazione dell’impero (quello centrale e più grande); Distruzione e Desolazione. L’idea di fondo consiste nel rappresentare un’identica scena naturale nel suo evolversi: dallo stato di Natura, libero e felice; a quello arcade, in cui l’uomo è ancora perfettamente inserito nel ciclo della Natura; alla costruzione della civiltà, di cui si fa simbolo una fiorente città dai tratti romani; alla distruzione che la civiltà inevitabilmente comporta, perché sedentarietà, fissazione dei confini naturali, costruzione di edifici e case significano il fondarsi di un capitalismo che porta a dissidi, guerre, dissoluzioni. Come sappiamo da un post precedente, è l’idea, espressa nella vita di Virgilio scritta da Elio Donato, che le Bucoliche raffigurerebbero lo stato primitivo ma felice della società, perché i pastori hanno greggi proprie, ma non impongono divisioni al terreno, sul quale le greggi devono poter pascolare senza confini. Con la nascita dell’agricoltura e quindi delle Georgiche, si arriva alla divisione dei campi e al formarsi della proprietà privata, perché i campi non sono di tutti, ma, quando va bene, sono di chi li lavora. Questo sfocia poi nelle guerre e nelle distruzioni, di cui si sarebbe fatta immagine l’Eneide. Che in Virgilio ci fosse un simile progetto naturalmente è assai discutibile; così come non credo che Cole conoscesse Virgilio o Donato (benché, se conosceva Virgilio è anche possibile e addirittura facile che lo leggesse con il commento e attraverso il filtro di Donato, che spesso accompagnava le antiche edizioni virgiliane. Ma non ho nessun dato a riguardo di una possibile conoscenza di Virgilio da parte del nostro pittore, e non è cosa che si possa dare per scontata). Resta da segnalare come, in Virgilio sì e no, in Donato in modo più esplicito, in Cole pure, una medesima critica al mondo contemporaneo e alla società cosiddetta civile, e alle forme del vivere civile, passi sempre attraverso i medesimi luoghi, e un medesimo utilizzo dell’idea pastorale, se non proprio arcade. Questa è per me, delle tre forme di riuso prospettate dal post, quella sicuramente più interessante di tutte.
© Massimo Gioseffi, 2019