Edoardo Volterra

A cura di Annarosa Gallo, Ivano Pontoriero e Pierangelo Buongiorno

Come per migliaia di ebrei italiani, fra i quali numerosi studiosi e accademici, la vita di Edoardo Volterra è stata segnata dalla promulgazione, nella tarda estate del 1938, della legislazione razziale. Un evento spartiacque, dal pregnante valore periodizzante per vicende collettive e individuali.

Rampollo di un’illustre famiglia dell’alta borghesia ebraica secolarizzata, E.V. nacque a Roma il 7 gennaio del 1904, terzogenito del matematico e fisico Vito Volterra e di Virginia Almagià, figlia di Edoardo, un ingegnere civile proprietario di una delle maggiori imprese europee specializzate nella realizzazione di infrastrutture.

Dopo gli studi liceali, si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Ateneo romano, che frequentò dal 1922 al 1926, conseguendo la laurea con una tesi sull’arrha sponsalicia, sotto la guida di Pietro Bonfante, e, come ulteriore referente, del di lui maestro Vittorio Scialoja, indiscusso principe delle discipline giuridiche, non solo di quella romanistica.

E.V. fu educato agli ideali risorgimentali e liberali. L’opposizione al fascismo prese coscienza in lui sulla scorta del modello paterno: il padre Vito, senatore del Regno dal 1905, nella sua attività parlamentare si era schierato apertamente contro la politica fascista. Nel gennaio del 1925, E.V. fu bastonato da studenti fascisti, riportando una ferita alla testa. L’episodio è da inserirsi probabilmente a margine della mobilitazione indetta alla Sapienza il 13 gennaio di quell’anno, a seguito del discorso pronunciato da Mussolini alla Camera all’inizio del mese (il 3 gennaio), col quale il capo del governo si era assunto la responsabilità politica degli eventi del 1924 e, in particolare, dell’omicidio Matteotti, annunciando così la definitiva svolta autoritaria. Discorso in seguito al quale gli antifascisti dell’Aventino avevano pubblicato, l’8 gennaio, il “Manifesto delle opposizioni”.

Subito dopo il conseguimento della laurea, nel 1927, E.V. fu incaricato di Storia del diritto romano e, poi, di Diritto romano nell’Università di Cagliari, a testimonianza delle sue capacità che lo rendevano, di fatto, l’enfant prodige della romanistica italiana. A Cagliari E.V. rimase fino al 1929. In quel biennio la sua produzione fu feconda, con la pubblicazione di dieci articoli, apparsi, principalmente, in riviste espressione del contesto romano di provenienza (Bullettino dell’Istituto di Diritto romano e Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche), e di quello sardo di approdo (Studi economici e giuridici della Università di Cagliari e Studi sassaresi). Fin da questa prima esperienza accademica, E.V. non mancherà mai di valorizzare gli organi editoriali delle sedi di appartenenza.

Da sottolineare che nel 1928 usciva, nel volume diciassettesimo degli Studi economici e giuridici della Università di Cagliari, il primo lavoro di E.V. in materia di senatoconsulti (D. 48,16,16,1 e il senatoconsulto Turpilliano nel diritto giustinianeo, 115-118).

Nel 1929 si trasferì a Parma, dove venne incaricato dell’insegnamento di Istituzioni di diritto romano per il biennio 1929-1931 e dove si consumò la tormentata vicenda del giuramento.

Nel 1931, l’originaria formula di giuramento, nel testo elaborato, qualche anno prima, dal Ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Gentile, si era arricchita della menzione del regime Fascista al fianco del Re, dello Statuto Albertino e delle altre leggi dello Stato. Nell’autunno dello stesso anno, professori e docenti furono pertanto invitati a giurare nelle mani dei rettori delle università dove prestavano servizio, a pena dell’allontanamento. L’adesione non fu unanime, né serenamente assunta, non solo perché dodici professori rifiutarono di prestare il giuramento e qualche altro ricorse a diversi espedienti pur di sottrarsi all’obbligo, ma anche perché non pochi acconsentirono solo dopo molte riluttanze.

Malgrado ciò, la propaganda del regime non perse l’occasione di rimarcare l’avvenuta ‘fascistizzazione’ dell’università italiana, ben consapevole che, alla fine, contasse l’alto numero dei giuranti, malgrado il personale percorso di ciascun professore alla base di quell’adesione, talvolta molto sofferto e tormentato.

Lo stesso E.V. fu protagonista di una puntigliosa polemica nei confronti di quella richiesta, probabilmente sollecitato anche dal netto rifiuto opposto da suo padre e formalizzato in una lettera inviata al Rettore della Sapienza Pietro de Francisci (quest’ultimo era, peraltro, tra i punti di riferimento accademici del giovane romanista).

Di fronte alla necessità di giurare, per evitare la brusca interruzione di una così brillante carriera, di concerto con il collega filosofo del diritto Sandro Levi, E.V. volle esprimere il proprio dissenso, rivendicando in una lettera indirizzata al rettore dell’Università di Parma, Luigi Preti, che il giuramento non avrebbe leso né menomato le basi del suo insegnamento. Ancora a distanza di anni E.V. ricordò con amarezza quella vicenda a Helmut Goetz.

In questo stesso periodo, dopo essere stato ternato nel concorso di diritto romano bandito a Modena, fu chiamato come straordinario a Pisa, dove rimase per un solo anno accademico, prima di essere chiamato, nel 1932, a Bologna, da dove fu allontanato forzatamente in seguito all’emanazione delle leggi razziali.

Nel settennio tra il 1931 e il 1938 svolse un’intensa attività didattica (al corso di Istituzioni si affiancò l’incarico di Papirologia giuridica) e di ricerca, arrivando a pubblicare circa centotrenta contributi.

Nel frattempo, E.V. non perse mai di vista il deteriorarsi della situazione politica. In particolare, le avvisaglie del radicale mutamento della posizione del fascismo nei confronti degli ebrei italiani non sfuggirono alla sua attenzione, allorquando sul Giornale d’Italia del 14 luglio 1938 apparve, anonimo, l’articolo Il fascismo e la questione della razza. In questa circostanza E.V. scrisse una memoria, poi rimasta inedita, in cui si confutavano, ricorrendo all’uso delle fonti antiche, alcune tesi degli scienziati fascisti circa l’estraneità degli ebrei al popolo italiano.

Anche nella compilazione della scheda personale elaborata dal governo fascista per censire i dipendenti pubblici ebrei, E.V. ribadì tale posizione. Alle domande poste dall’autorità, E.V. non diede risposte affermative né negative, come lo stesso formulario prevedeva e pretendeva; elaborò, invece, brevi ma articolate asserzioni, in cui sempre rivendicò l’appartenenza della propria famiglia alla comunità nazionale e la sua secolarizzazione. Al grigio burocrate sfuggì in ogni caso la raffinata argomentazione elaborata da E.V., etichettata come il fallito tentativo di nascondere «la sua vera origine». Ancora una volta la formazione giuridica aveva permesso a E.V. di intravedere il rischio insito nelle dichiarazioni rese, che, di fatto, costituivano il fondamento formale su cui ancorare e attuare gli atti discriminatori da parte del regime.

La promulgazione del D.L. del 5 settembre, che comportò la perdita della cattedra e la contestuale espulsione dall’università, non trovò E.V. impreparato, in quanto, già dalla fine di agosto, era in viaggio, diretto ad Alessandria d’Egitto, città d’origine della famiglia di sua moglie, Nella Levi Mortera. Non erano motivazioni di natura solo familiare a spingere E.V. in Egitto. Egli sperava, infatti, di vedere accettata, da parte del Rettore dell’Università di Alessandria, la propria candidatura per un posto di professore, assistente o maître de conférences in una disciplina fra Diritto romano, Storia del diritto, Diritti antichi comparati, Papirologia giuridica o Diritto civile presso la Facoltà giuridica, ovvero in Storia Antica, Istituzioni dell’Egitto in epoca romana o Papirologia presso la Facoltà di Lettere. Una candidatura così articolata metteva in risalto un patrimonio di competenze e di conoscenze che, nel tempo, E.V. aveva ulteriormente ampliato e arricchito. Basti pensare, tra l’altro, allo studio dei diritti dell’antico oriente mediterraneo, sostanziatosi nella pubblicazione della importante monografia Diritto romano e diritti orientali, apparsa nel 1937.

Le mutate condizioni di vita, professionali e di studio, rese ancora più difficili con l’estromissione di studenti e studiosi ebrei dalle biblioteche pubbliche, non minarono l’operosità scientifica di E.V., che in questo frangente si poté giovare, pur nelle innumerevoli difficoltà, del sostegno umano e finanziario di amici e colleghi italiani (in particolare di Salvatore Riccobono, già dal maggio 1939) e stranieri, fra tutti Pierre Noailles. Un sostegno partecipe e fattivo, tale da permettergli, dopo il fallito tentativo di stabilirsi in Egitto, di soggiornare proprio tra Francia, Belgio e Olanda, nonostante alcuni rapidi e provvisori rientri in Italia. Qui E.V. poté attendere ai suoi studi e in particolare alla ricerca sui senatus consulta. L’indagine dedicata alle deliberazioni del senato di Roma era sorta a margine della ricerca corale condotta da ampie frange della romanistica italiana intorno alle costituzioni imperiali, ma avrebbe assunto forma autonoma proprio negli anni dell’espulsione dall’università, durante le peregrinazioni tra Egitto e Nord Europa, e sarebbe, successivamente, proseguita per tutta la sua vita.

L’invasione della Francia nel giugno 1940 interruppe bruscamente il soggiorno di E.V., gli impedì di partire per il Brasile (dove, con la mediazione di Tullio Ascarelli, era stato chiamato dall’Università di San Paolo) e lo indusse a rientrare definitivamente, insieme alla moglie, in Italia, dimorando tra Roma, Ariccia e Bologna, anche al fine di essere più vicino alla famiglia d’origine (il padre oramai gravemente malato sarebbe morto solo qualche mese dopo, nell’ottobre del 1940).

Ad ogni modo, tra il 1939 e il 1943, E.V. pubblicò otto lavori, riuscendo a eludere in parte il divieto di firmarli almeno negli estratti, grazie sempre alla disponibilità di direttori di collane e riviste, come, ad esempio, Mariano D’Amelio.

Tuttavia, già dal 1942, E.V. si impegnò sempre più nell’azione antifascista, facendo peraltro della sua casa bolognese in via Odofredo 12 un punto di incontro e raccordo. In rappresentanza dell’area emiliana partecipò alla riunione tenutasi a Roma il 4 giugno 1942 nello studio dell’avvocato Federico Comandini, per la costituzione del Partito d’Azione. Del PdA E.V. divenne uno dei massimi esponenti. Esattamente un anno dopo, nella retata scatenata in tutta Italia contro gli antifascisti e in particolare gli azionisti, E.V. fu arrestato a Bologna e incarcerato a San Giovanni in Monte, da dove venne liberato, insieme agli altri detenuti politici, all’indomani della caduta del Fascismo, il 25 luglio 1943.

Rientrato a Roma, la sua partecipazione alla lotta al fascismo prese forma sul campo, con l’adesione alla brigata Giustizia e Libertà, in qualità di «capo della zona militare dei Castelli Romani», tanto da essere ricercato già dall’ottobre dalle truppe nazi-fasciste e da ricevere poi la medaglia d’argento al valore militare da parte della neonata Repubblica Italiana. La sua proficua attività nelle file della Resistenza non passò inosservata; alla liberazione di Roma, il comando alleato lo inserì nel Psychological Warfare Branch, ossia l’organismo preposto al controllo dei mezzi di comunicazione italiani. Inoltre in seno al PdA egli fu componente della commissione appositamente istituita per la futura abrogazione della normativa razziale.

I contatti intessuti fin dal periodo della resistenza attiva sul campo con gli Alleati gli consentirono di entrare a Bologna il 21 aprile 1945 con le truppe del II Corpo d’Armata polacco al comando del generale Władysław Anders, grazie alle quali la città era stata liberata. In principio E.V. assunse la carica di Prorettore dell’Ateneo bolognese. Infatti, nel novembre del 1944, in vista della liberazione della città, il Comitato di Liberazione Nazionale aveva indicato come futuro Rettore dell’Ateneo l’anziano Bartolo Nigrisoli, uno dei dodici professori che nel lontano 1931 avevano rifiutato il giuramento, e come Prorettore, appunto, E.V.

Si trattava di una scelta dal profondo significato ideologico, coinvolgendo due studiosi cacciati in un modo o nell’altro dall’Accademia, e in palese discontinuità con il Rettorato del fascista e poi repubblichino Goffredo Coppola, finito peraltro, pochi giorni dopo l’ingresso di E.V. a Bologna, insieme a Mussolini e agli altri gerarchi a Piazzale Loreto.

Ciononostante, l’assunzione dell’incarico da parte di E.V. fu travagliata per le resistenze, le diffidenze e l’opposizione di ampia parte del corpo accademico, e in particolare dei docenti ex fascisti, che riuscirono a ritardare di due settimane l’insediamento del Prorettore, avvenuto solo il 5 maggio. Tale opposizione si concretizzò al momento dell’elezione per il Rettorato, con la candidatura di Felice Battaglia: la vittoria di E.V., con uno scarto di soli due voti (e con due schede bianche) rivela la profonda spaccatura in Ateneo e l’avversione nutrita nei confronti di un «antifascista partigiano, per giunta perseguitato razziale», che, per una serie di fortunate congiunture, fu uno dei pochi professori ebrei a essere reintegrato sulla cattedra a suo tempo sottrattagli (altri furono riammessi solo come soprannumerari).

Il mandato rettorale di E.V., compreso tra il 19 giugno 1945 e il 1° novembre 1947, fu tutto teso alla ricostruzione morale e materiale dell’Ateneo bolognese.

L’esperienza rettorale gli aveva permesso di individuare problemi, proporre soluzioni e adottare provvedimenti estensibili per le linee generali a tutta l’Università italiana: ad esempio l’istituzione di corsi semestrali e di sessioni straordinarie d’esame, per far fronte alle esigenze di quanti avevano abbondonato gli studi per offrirsi alla guerra di Liberazione o per sottarsi alla leva e al lavoro coatto, come avrà modo di ricordare lo stesso E.V. Un laboratorio fecondo di idee da recuperare nell’ambito della contemporanea attività parlamentare alla Consulta Nazionale (dove era stato nominato in quota al Partito d’Azione), e, in particolare, in qualità di componente della Commissione Istruzione e Belle Arti.

Nel biennio successivo al rettorato, E.V. tornò al suo insegnamento sulla cattedra di Diritto romano e, contestualmente, fu preside della facoltà di Giurisprudenza, senza alcuna ambizione a rivestire incarichi di natura diversa da quella esclusivamente accademica.

A partire dal 1946 e fino al 1948 si segnalano una serie di interventi legati ai problemi che l’università stava affrontando dopo la fine delle ostilità, altri attinenti alle questioni dibattute a livello nazionale (Decentramento e rinnovamento amministrativo; Perché voto per la Repubblica) o al ricordo di quanti erano caduti nel corso della guerra civile (Ricordo di Eugenio Jacchia), sebbene non manchi un contributo romanistico su Diritto di famiglia, la raccolta degli appunti dalle lezioni dell’anno accademico 1945-1946. Il 1947 rappresentò comunque l’anno della ripresa della produzione scientifica di E.V., con la significativa scelta di attingere ai materiali sui senatoconsulti (cui si stava dedicando da almeno vent’anni) per il contributo destinato agli Scritti in memoria di Contardo Ferrini, Di una decisione del senato romano ricordata da Tertulliano.

A distanza di un ventennio circa dal suo trasferimento nell’Ateneo bolognese, e dopo la parentesi buia tra il 1938 e il 1944, E.V. nel 1951 si trasferì a Roma, alla Sapienza, sulla cattedra di Diritti dell’Oriente Mediterraneo, e, dal 1954, su quella di Istituzioni.

Qui tra l’altro, si fece carico della ripresa della palingenesi delle costituzioni imperiali, al fianco di uno dei suoi maestri, il già ricordato Pietro de Francisci, nei confronti del quale aveva espresso duri giudizi dopo il settembre 1938, per la solerte applicazione della direttiva che vietava agli ebrei di frequentare le biblioteche pubbliche. La palingenesi, ideata dallo stesso de Francisci, era stata portata avanti, dopo la morte di Pietro Bonfante, da Salvatore Riccobono, che tanto si era adoperato per aiutare non solo E.V. ma anche altri studiosi ebrei dopo il 1938, nonostante la sua adesione al partito fascista. Del resto, E.V. ricorderà sempre con profondo affetto e gratitudine questo principe della romanistica italiana ed europea per la sua generosità.

Nella prospettiva di E.V. la capacità intellettuale e scientifica sorreggeva il giudizio espresso nei confronti dei colleghi, e perciò si fece promotore dell’istanza con la quale richiese, ottenendolo, il reintegro all’insegnamento di Pietro de Francisci, epurato per la sua partecipazione al regime fascista (era stato Guardasigilli tra il 1932 e il 1935).

Nell’Università in cui si era formato, dal 1960 al 1973 E.V. diresse l’Istituto di diritto romano e dei diritti dell’Oriente mediterraneo e la prestigiosa rivista Bullettino dell’Istituto di diritto romano. Nel 1973 il presidente della Repubblica, il democristiano Giovanni Leone, nominò E.V. giudice della Corte Costituzionale. Anche la sua attività di giudice costituzionale (vicepresidente dal 1981 al 1982) fu feconda e sorretta dalla competenza giuridica e dalla sua sensibilità di storico del diritto: esemplificativa a riguardo la sentenza numero 91 del 27 giugno 1973, con cui la Corte, relatore Volterra, abrogò il divieto di donazione fra coniugi. Nella attività alla Corte, la ricerca romanistica di E.V. assumeva insomma nuove forme.

Scaduto il mandato di giudice costituzionale, E.V. riprese la sua attività di studioso con rinnovato vigore, intendendo dedicarsi completamente a quella ricerca sui senatoconsulti che lo aveva accompagnato nell’arco dell’intera vita e assorbito nell’ora più buia della discriminazione razziale.

Solo il deterioramento delle condizioni di salute e poi la morte, sopraggiunta il 19 luglio 1984, impedirono il completamento di quella ricerca, documentata dalle due voci Senatusconsulta (Nuovo Digesto Italiano, 1940; Novissimo Digesto Italiano, 1969), e dalle centinaia di schede preparatorie alla palingenesi, da poco pubblicate. Questi materiali e le 380 pubblicazioni scientifiche rappresentano il legato di E.V. allo «studio vissuto come passione».

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