Mario Attilio Levi

A cura di Michele Bellomo

Non si può di certo dire che le notizie sulla vicenda biografica di Mario Attilio Levi abbondino. Fino a pochi anni fa, le poche informazioni sul suo conto si limitavano ad alcuni Cenni biografici redatti – probabilmente dallo stesso Levi – come Introduzione a un volume di raccolta di suoi scritti (Il tribunato della plebe e altri scritti su istituzioni pubbliche romane, Milano 1978), e ai ricordi personali e professionali di allievi e colleghi riuniti nel volume λόγιος ἀνήρ. Studi di antichità in memoria di Mario Attilio Levi, curato da Pier Giuseppe Michelotto (Milano 2002). In particolar modo, il fondamentale periodo che lo vide prima allontanato dall’insegnamento universitario in conseguenza dell’emanazione delle leggi razziali e poi impegnato in prima linea nella guerra di Resistenza rimaneva, complice il riserbo dello stesso Levi – più incline, anche con i suoi stretti collaboratori, a progettare il futuro piuttosto che a a svelare o rivivere il passato – avvolto nell’oscurità. L’ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali ha offerto però l’occasione per condurre nuove ricerche che hanno contribuito (e contribuiranno certamente) a delineare con più precisione il profilo biografico e bibliografico di uno dei più prolifici e discussi storici italiani dell’antichità del XX secolo.

Nato il 12 giugno 1902 a Torino da una famiglia che poteva annoverare professori di liceo e scrittori – il padre Attilio si era dedicato a studi dialettali – Levi si avvicinò precocemente, favorito anche dalla nutrita biblioteca di casa, al mondo della cultura e, conclusi gli studi liceali, si iscrisse nel 1919 alla facoltà di studi giuridici dell’Università di Torino con il proposito di dedicarsi allo studio del diritto romano. Una passione, quella per il diritto, mai sopita, che infatti caratterizzerà molti dei suoi scritti giovanili, nonostante già dal secondo anno di università l’incontro con Gaetano De Sanctis lo spingesse ad approfondire gli studi di epigrafia, papirologia e, più in generale, di storia antica. Esito di questo incontro fu il passaggio alla facoltà di lettere: una transitio tormentata, che lasciò per sempre in lui sedimenti di nostalgia per gli studi giuridici.

Il polo universitario di Torino offriva nei primi decenni del Novecento un panorama sicuramente stimolante dal punto di vista intellettuale. Levi sottolineò a più riprese, nel corso della sua vita, il debito contratto con i professori incontrati durante il suo percorso di studi, da Gino Segré a Pietro Egidi, quest’ultimo maestro di Federico Chabod, con il quale Levi strinse un profondo legame d’amicizia, stimolato non solo dalla frequentazione universitaria, ma dalla comune passione per l’alpinismo. Folgorante fu comunque, non solo per il già ricordato cambio di facoltà, l’incontro con Gaetano De Sanctis. Allievo di Karl Julius Beloch e docente di Storia antica a Torino dal 1900, De Sanctis fu fondamentale nell’indirizzare il giovane Levi verso studi di carattere politico-istituzionale e nell’inculcargli un approccio ai testi antichi caratterizzato da un temperato criticismo e dalla continua ricerca di un proficuo dialogo interdisciplinare tra le varie fonti documentarie, che si collocava idealmente a metà strada tra il rigido (e per certi aspetti sterile) filologismo della scuola tedesca (che in Italia faceva capo a Ettore Pais) e il “dilettantismo” di autori come Guglielmo Ferrero. Dalla scuola di De Sanctis il Levi ricavò quindi, per farne poi tratto distintivo della sua ricerca, un forte interesse per la storia politica e in particolare per la storia dello Stato, analizzato primariamente nella sua componente sociale come incontro (e scontro) tra i vari gruppi in lotta per il potere. Nonostante alcune divergenze “teoriche” e di “metodo” (soprattutto in merito all’utilizzo di categorie morali nel giudizio storico) Levi mantenne sempre, nei confronti del maestro, un atteggiamento di profonda stima e affetto, che ebbe modo di manifestarsi in più di un’occasione, a partire dalla decisione di scrivere nel dicembre del ’31 una lettera all’allora Ministro degli Esteri Dino Grandi per giustificare la scelta di De Sanctis (unico tra gli antichisti) di non prestare giuramento di fedeltà al fascismo.

Sotto la guida di De Sanctis Levi si laureò dunque con una tesi dedicata alla figura di L. Cornelio Silla (discussa nel 1923 e pubblicata l’anno successivo).

L’ambiente torinese negli anni universitari del Levi era caratterizzato da un panorama intellettuale fervido di stimoli, di dibattiti e di scontri, proprio di una temperie politica tormentata, che nella città sabauda rinveniva, non a caso, il teatro privilegiato dei moti di protesta e delle mobilitazioni e degli scioperi della classe operaia. Levi venne ben presto attratto dall’attività politica, che egli vedeva come necessaria e complementare a quella di ricerca (anni dopo avrebbe ricordato fieramente di aver sempre difeso le proprie idee «raccogliendo le sfide tanto con la penna come con le armi»). Dopo essersi avvicinato al sindacalismo rivoluzionario – stimolato dalle letture di Georges Sorel – lavorò come giornalista presso il quotidiano “Il Piemonte” e simpatizzò sin dalla prima ora per i Fasci Italiani di Combattimento. Partecipò alla marcia su Roma e fu membro squadrista della “Toti”, coltivando uno stretto legame di solidarietà politica e di amicizia con il quadrumviro Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, con il quale condivideva del resto anche un profondo sentimento di lealtà alla monarchia. A partire dalla seconda metà degli anni Venti, e soprattutto dai primi anni Trenta, la sua attività politica assunse comunque connotati diversi, ispirati a un impegno più di carattere intellettuale che di partecipazione attiva in prima linea. Levi, in particolar modo, si rese promotore del rilancio delle biblioteche popolari torinesi, interpretando in questo modo l’impegno civile che il fascismo si aspettava dagli intellettuali organici per aumentare il consenso delle masse nei confronti del regime.

Parallelamente all’attività politica, anche la carriera universitaria di Levi procedeva senza indugi. Tre mesi dopo aver discusso la tesi di laurea (1923), ottenne un incarico di insegnamento di Storia generale nel neonato Istituto Superiore di Magistero di Torino; quindi, nel 1929, complice anche lo spostamento di De Sanctis a Roma, quello di Storia antica alla Facoltà di lettere. Nel 1936 avvenne infine il trasferimento alla Regia Università di Milano, dove Levi fu inquadrato come docente di Storia antica con esercitazioni di Epigrafia latina. In questi primi anni milanesi (1937-1938) egli ebbe inoltre modo di compiere ripetuti viaggi a Rodi, dove tenne lezioni di Storia romana all’interno di corsi di perfezionamento per laureati del Regio Istituto di perfezionamento “Dante Alighieri”.

L’ottenimento della cattedra milanese costituiva del resto il riconoscimento dell’ormai affermato profilo scientifico del pur giovane studioso, che aveva avuto modo di consolidarsi negli anni precedenti grazie a una serie di notevoli e apprezzati (seppur per varie ragioni, non soltanto scientifiche) contributi. Dopo aver pubblicato la sua tesi sillana, insieme con alcuni saggi dedicati all’analisi di specifici documenti epigrafici – quali la legge contro la pirateria (1925), la lex agraria del 111 a.C. (1929), la lex repetundarum riportata sulla tavola Bembina (1929) –, o a rassegne bibliografiche sui più recenti lavori di storia repubblicana (La caduta della repubblica romana, «RSI»41, 1924, pp. 253-272), Levi condensò le sue idee sulla crisi del sistema repubblicano e i suoi interessi per le problematiche politico-istituzionali di questo periodo nel volume La costituzione romana dai Gracchi a Giulio Cesare (1928): un’opera che, oltre a certificare l’attenzione di Levi per la storia prettamente politica, risentiva apertamente dell’influsso delle teorie di Eduard Meyer, che vedevano nell’esperienza politica cesariana un breve (e altrettanto rapidamente fallito) tentativo di imposizione di un governo monarchico di stampo orientale all’interno di un più lungo e lineare percorso istituzionale che dal “principato repubblicano” di Pompeo aveva condotto all’instaurazione del regime augusteo. Concetti, questi, che Levi ribadì all’inizio degli anni Trenta, quando gli fu assegnato dal direttore della sezione di Antichità classiche dell’Enciclopedia Italiana (Gaetano De Sanctis) il compito di redigere alcune importanti voci biografiche. In particolar modo, va segnalata l’ardita esposizione della voce Cesare, Gaio Giulio, che si chiudeva con una sostanziale condanna della politica cesariana, accusata di essere «antistorica», «estranea allo spirito della romanità» e quindi «giustamente abbattuta dal pugnale di Bruto». Naturalmente ciò implicava una netta frattura tra le politiche di Cesare e di Ottaviano; frattura che il “pensiero ufficiale” del regime non voleva né poteva in alcun modo ammettere. Le parole del Levi indispettirono Mussolini – la cui predilezione per Cesare era assai nota – e costarono allo studioso reiterati attacchi fino alla richiesta del suo allontanamento dal progetto, avanzata da membri del regime che certamente mal sopportavano anche l’origine ebraica di Levi (così come di altri allievi dell’altrettanto mal sopportato antifascista Gaetano De Sanctis). A sostegno di Levi si schierò però lo stesso direttore dell’Enciclopedia, Giovanni Gentile, che insistendo soprattutto sulla lunga militanza fascista dello studioso riuscì ad evitargli serie sanzioni o punizioni.

Se questo incidente non provocò dunque effetti pratici immediati, di certo esso portò il Levi ad assumere, da quel momento in avanti, posizioni decisamente più allineate con gli orientamenti storiografici della maggior parte del mondo accademico. La produzione scientifica degli anni successivi, a partire dall’Ottaviano capoparte (1933), mostra in effetti uno studioso che pur non lasciandosi trascinare in eccessive deformazioni o storture, aderiva convintamente alle linee di ricerca imposte dal regime, allontanandosi però in tal modo dalla scuola desanctiana (si veda a tal proposito l’elogio a Mussolini “storico” a discapito di De Sanctis in Roma negli studi storici italiani, 1934): non è un caso, del resto, che, proprio nello stesso anno di uscita dell’Ottaviano, un altro fedele allievo di De Sanctis, Piero Treves, avesse pubblicato il suo Demostene, che nel richiamo alla libertà greca si poneva idealmente in antitesi proprio al libro del Levi. In questi anni la svolta sempre più autoritaria del fascismo, il culto eroico di Mussolini e le rinnovate aspirazioni imperiali del regime spingevano d’altronde a voler approfondire, anche per i loro evidenti richiami all’attualità, tematiche legate all’affermazione del potere personale di un capo carismatico nelle realtà statuali del mondo antico. Segno più evidente di questo influsso, che certamente non poteva non affascinare il Levi – in possesso di un singolare fiuto nel cogliere in anticipo i nuovi orientamenti storiografici –, furono il volume La politica imperiale di Roma (1936), presentato entusiasticamente dall’amico e patrono Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, nonché una completa rivalutazione dell’esperienza politico-istituzionale di Cesare, raffigurato ora non più in antitesi, ma come modello di ispirazione per lo stesso Augusto (si vedano ad es. Cesare vivo, La «affectatio regni» di Cesare, entrambi del 1934, o l’apologetica Appendice bibliografica alla voce cesariana del vol. IX dell’Enciclopedia Italiana). Al di là dello sforzo, peraltro piuttosto comprensibile, di superare lo scandalo del 1931, non sarebbe comunque corretto interpretare questi lavori come esclusivamente motivati dalla volontà di porgere omaggio al dichiarato tentativo di Mussolini di ricercare nel modello romano (e soprattutto in quello cesariano-augusteo) precedenti illustri per l’affermazione del nuovo regime fascista. I lavori pubblicati tra il 1937 e il 1938, dedicati principalmente alla figura di Vespasiano e all’affermazione della dinastia flavia, mostrano infatti un Levi proiettato verso il tentativo di indagare criticamente (e più ampiamente) le varie modalità di genesi e affermazione del principato, dai princìpi repubblicani agli esiti postaugustei.

A interrompere questo percorso di ricerca subentrarono però gli eventi legati all’epurazione dall’insegnamento in conseguenza dell’emanazione delle leggi razziali. Come si è già avuto modo di ricordare, sugli anni compresi tra l’autunno del 1938 e la fine della seconda guerra mondiale non esistevano, fino a poco tempo fa, informazioni dettagliate sul Levi. Una mancanza dovuta in gran parte allo stesso studioso, decisamente restio a parlare o a divulgare notizie su quest’oscuro periodo della sua vita personale e professionale. L’ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali ha però offerto la possibilità di compiere un’indagine più approfondita e di riportare alla luce alcune delle vicende che lo videro direttamente coinvolto.

Già sospeso il 16 ottobre e poi definitivamente allontanato dall’insegnamento il 14 dicembre 1938, Levi trovò inizialmente impiego come collaboratore della UTET a Torino per poi spostarsi rapidamente (già nel ’39) a Roma, presso l’Istituto editoriale Bernardo Carlo Tosi. Nel frattempo, beneficiando della già ricordata amicizia con Federico Chabod, entrò in contatto con Pierfranco Gaslini, direttore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (I.S.P.I.) di Milano. La collaborazione con l’Istituto, formalizzata a partire dal 1941, concesse a Levi un po’ di respiro – soprattutto finanziario – che gli permise di portare a compimento alcuni progetti editoriali, come La politica estera di Roma antica, pubblicato in due tomi nel 1942 sotto lo pseudonimo di Manlio Canavesi, che Levi utilizzò per tutti i lavori di questo periodo. A questa fase risale anche la compilazione di diversi profili biografici (Vite di Romani illustri) per la rivista Popoli, quindicinale di alta divulgazione scientifica fondato da Carlo Morandi e Federico Chabod e pubblicato sempre dall’Istituto. Recenti indagini nell’Archivio I.S.P.I. hanno permesso inoltre di rintracciare la presenza di altri progetti, poi naufragati o abortiti, tra cui si annoverano: Israele 1940. Saggio politico sulla realizzazione di uno Stato per gli Ebrei, una Storia del popolo romano e una collana di biografie di personaggi storici di rilevante spessore (Condottieri di popoli). In quest’ultima iniziativa Levi cercò di coinvolgere anche il suo maestro, Gaetano De Sanctis (con cui i rapporti si erano decisamente raffreddati negli ultimi anni, complice la già ricordata svolta storiografica postenciclopedica dell’allievo), per la realizzazione di quel Pericle che, tramontata l’ipotesi di collaborazione con l’I.S.P.I., sarà poi pubblicato pochi anni dopo presso la Casa Editrice Principato.

L’idillio generato da questa prolifica attività editoriale, tuttavia, durò poco. Nella primavera del 1942 una retata della polizia presso la sede milanese dell’Istituto mise in allarme il Levi, che si trasferì a Roma. Le carte reperite nell’Archivio dell’I.S.P.I. mostrano che durante l’estate di quello stesso anno i rapporti con Gaslini cominciarono a farsi più complicati e lo studioso, dopo essere stato in certo senso de-mansionato, cessò ogni collaborazione con l’Istituto a partire dall’estate dell’anno successivo. Il 1943 si era del resto aperto con la funesta scomparsa del padre Attilio (16 gennaio) e Levi, messo sempre più in difficoltà dall’inasprimento delle normative razziali, fu indotto persino a scrivere una lettera a Mussolini, chiedendo, senza successo, di potersi arruolare per la campagna in Russia.

Furono la caduta del regime, il 25 luglio 1943, e il successivo armistizio dell’8 settembre a permettere a Levi di tornare in campo. Lo studioso, come ricordato in alcune pagine autobiografiche (Cenni biografici, p. XXI), si arruolò infatti nel Fronte Clandestino dell’Aeronautica leale alla monarchia, ricevendo una medaglia d’argento al valore militare per la sua partecipazione alla battaglia di Guidonia del 2 giugno 1944. Durante il periodo di servizio Levi venne incaricato di redigere un “Bollettino di Osservazione politico-diplomatica”, i cui resoconti settimanali furono infine raccolti in un volume. Si tratta di un’opera importante, utile soprattutto a ricostruire le reazioni maturate dallo studioso di fronte ai rapidi mutamenti politici e militari messi in moto dalla caduta repentina del fascismo. A partire dal settembre del ’44 Levi si unì al Gruppo di Combattimento “Friuli”, di cui fu sottotenente nell’87° reggimento. Anche in questo caso, la ricomposizione degli eventi cui egli prese parte è resa possibile dalla consultazione di un volumetto da lui stesso redatto dietro spinta del Comando del Gruppo di Combattimento (Il gruppo di combattimento «Friuli» nella guerra di Liberazione, Bergamo 1945), la cui narrazione prosegue fino all’arrivo del reggimento a Bologna il 21 aprile del ’45.

Terminata la guerra, Levi tornò a Roma, fino a quando non venne reintegrato nell’insegnamento a Milano per l’a.a. 1946/47, andando ad affiancare Alfredo Passerini, che lo aveva sostituito a partire dal 1938. Levi assunse inizialmente l’insegnamento di Storia romana e di Antichità greche e romane, lasciando al collega (con cui i rapporti furono ottimi fino alla prematura morte di Passerini, avvenuta nel 1951) la cattedra di Storia greca e Topografia dell’Italia antica. Il pieno ritorno alla vita accademica permise a Levi di rituffarsi nella ricerca scientifica, e da quel momento in avanti la sua produzione fu costante ed estremamente copiosa. Già nel 1945 egli aveva dato alle stampe, presso la casa editrice Principato, un Nerone, che presto (1949) ripensò e pubblicò in veste del tutto nuova sentendosi, sono parole sue: «arricchito dalle grandi esperienze di vita vissuta di quegli anni di persecuzioni, di clandestinità e di guerra» (Cenni biografici, p. XXII). Uguali sentimenti lo spinsero a riprogettare da capo quel libro su Augusto concepito originariamente nel 1936 come seguito ideale dell’Ottaviano capoparte. Anche recependo critiche e osservazioni avanzate dai colleghi in concomitanza con l’uscita di quel fortunato volume, Levi decise di focalizzarsi sugli aspetti culturali, economici e sociali dell’epoca augustea, piuttosto che sugli sviluppi politico-istituzionali dettati dall’affermazione del nuovo regime. Un cambio d’approccio che lo avvicinava alla ricerca culturale e sociologica, e nel quale egli riconobbe ancora una volta il debito contratto con la scuola di De Sanctis, che appariva infatti come dedicatario del volume (Il tempo di Augusto, 1951).

Sempre come conseguenza dell’esperienza maturata durante il secondo conflitto mondiale, Levi si avvicinò, già dall’inizio degli anni Cinquanta, allo studio della Storia greca, il cui insegnamento tenne come ordinario a partire dal 1969 (mantenendo comunque per incarico pure quello di Storia romana). Anche in questo campo egli seppe spaziare su diversi temi e produrre un numero elevatissimo di pubblicazioni. Si ricordano in particolare i suoi lavori su Plutarco (Plutarco e il V secolo, 1955), su Alessandro Magno (Introduzione ad Alessandro Magno e Alessandro Magno, entrambi del 1977), su Isocrate (Isocrate, 1959), su Sparta (Quattro studi spartani, 1967), su Pericle (Pericle e la democrazia ateniese, 1980) e incursioni perfino nell’epoca micenea, frutto di letture effettuate nel biennio 1958-1960, durante il quale Levi ebbe modo di insegnare presso la Cornell University (Ithaca, N.Y.). Altri periodi di visiting furono quelli che lo videro approdare a Berkeley (in piena contestazione studentesca) e a Puerto Rico. Alcuni suoi scritti, come La lotta politica nel mondo antico (1955), conobbero vasta eco internazionale, venendo tradotti in diverse lingue. Dal 29 luglio 1988 fu socio corrispondente – e dal 25 novembre del 1989, nazionale – dell’Accademia dei Lincei.

Levi a più riprese sottolineò l’importanza che per la sua (da alcuni giudicata eccessiva) produzione bibliografica ebbe sempre l’insegnamento universitario. E del resto, per sua stessa ammissione, molti dei suoi libri riproducevano, in forma rivista, i contenuti dei corsi universitari tenuti alla Statale di Milano. In questi lavori Levi si confrontava direttamente e lungamente con le fonti antiche – mettendo a frutto i precetti della scuola desanctiana – mentre rifuggiva dalle copiose citazioni bibliografiche, che egli considerava semplice (e talvolta inutile) sfoggio di erudizione. Forse proprio in virtù di questa sua attenzione per la sfera didattica, Levi fu sempre apprezzatissimo dagli studenti, con cui fu in grado di stabilire un proficuo dialogo. Come ebbe modo di ricordare anni dopo, questa sua apertura e la costante ricerca di confronto gli permisero di esercitare liberamente la sua professione di docente anche durante i roventi anni della contestazione studentesca.

Non sorprende dunque riscontrare che, nonostante la mole impressionante di lavori specialistici, dagli anni Cinquanta-Sessanta Levi venisse sempre più coinvolto in opere di grande divulgazione: vocazione che egli spiegava come motivata dalla frustrazione provata nei confronti della scarsa eco di cui godevano gli studi classici in Italia (ma non solo) dopo la “forzata” spinta del fascismo, o come insofferenza per i limiti dell’ambiente accademico. In realtà, come si è visto, era una predisposizione che l’aveva accompagnato sin dagli anni torinesi. Levi partecipò dunque alla produzione di programmi televisivi – tra cui si può ricordare Come vivevano, trasmissione che approfondiva aspetti della vita quotidiana di Romani ed Etruschi –, e diede alle stampe volumi di carattere generale e ampio respiro destinati a un vasto pubblico, come L’impero romano (1971) o Italia antica (1968). Importante, e da lui sempre rivendicata con orgoglio, fu inoltre la stesura di un manuale di storia romana per docenti della scuola secondaria (Storia romana dagli Etruschi a Teodosio, con P. Melloni, 1960).

Notevoli furono infine le capacità organizzative del Levi. Creò a Milano l’Istituto di Storia Antica, pensato già prima dell’allontanamento universitario del 1938 e variamente rinominato nel corso dei decenni successivi. Promosse poi le attività di centri di ricerca dedicati allo studio dell’Italia antica, come il Centro Studi e documentazione sull’Italia romana (Ce.S.D.I.R.), trasformatosi successivamente in Centro ricerche e documentazione sull’antichità classica (Ce.R.D.A.C.) – che egli seppe mettere fruttuosamente in comunicazione con altri poli internazionali, come il C.I.C.A. (Comité international pour l’étude des cités antiques) di Strasburgo – e coordinò iniziative di scavo presso Catanzaro e Brescia, sovrintendendo a incontri periodici, convegni e tavole rotonde soprattutto a Villa Monastero di Varenna e a Villa Feltrinelli a Gargnano. Coltivò inoltre una lunga amicizia con Pierre Lévêque e con Monique Clavel Lévêque (e con P. Briant), con cui diede vita ai Colloques sur l’esclavage di Besançon-Varsavia. Per questo filone e per le collane di volumi che ne derivarono, Levi pubblicò una raccolta di saggi intitolata Né liberi né schiavi. Gruppi sociali e rapporti di lavoro nel mondo ellenistico-romano (1976). Diede infine vita ai Neronia, collana che prosegue ancora la sua vita.

Dopo aver raggiunto il pensionamento nel 1977, beneficiando di un prolungamento di cinque anni riservato a coloro che erano stati forzosamente allontanati dall’insegnamento durante la guerra, Levi ottenne il titolo di Professore Emerito e continuò a frequentare con regolarità l’ambiente universitario e le attività dell’Istituto, in dialogo costante con i suoi allievi, ai quali proponeva i risultati delle ricerche in cui metteva a frutto quel fiuto nel recepire e preconizzare i nuovi orientamenti storiografici che tutti gli avevano da sempre riconosciuto. In quest’ultima fase la sua inesauribile curiosità lo spinse ad ampliare gli orizzonti cronologici e geografici della sua ricerca ben oltre i limiti generalmente riconosciuti dell’antichità greco-romana (I nomadi alla frontiera, 1989), o a riflettere su noti processi storici prendendo la prospettiva degli “altri” (Plebei e patrizi nella Roma arcaica, 1992): un’attività di studio che egli continuò fino alla morte, avvenuta il 28 gennaio 1998 nella sua casa di Pregassona, in Canton Ticino, dove si era da tempo trasferito insieme con la moglie Bianca.

Approfondimenti bibliografici:

Una preliminare indagine sulla vicenda biografica e bibliografica di Levi, soprattutto per il periodo della persecuzione razziale, è stata compiuta da M. Bellomo – L. Mecella, Dalle leggi razziali alla liberazione: gli anni oscuri di Mario Attilio Levi, in A. Pagliara (a cura di), Antichistica italiana e leggi razziali, Parma 2020, pp. 143-208, cui si rimanda per una più completa rassegna bibliografica. Di seguito vengono riportati solo alcuni titoli fondamentali sulle varie questioni affrontate nel testo.

Per informazioni sulla vita di Levi e ricordi da parte di colleghi e allievi, vd. Cenni biografici, in M. A. Levi, Il tribunato della plebe e altri scritti su istituzioni pubbliche romane, Milano 1978, pp. XV-XXVI; Dai Nomadi all’Impero. Incontro di studio in onore di Mario Attilio Levi, in Filellenismo e tradizionalismo a Roma nei primi due secoli dell’impero, Atti dei Convegni Lincei 125, Roma 1996; AA.VV., In memoria di Mario Attilio Levi, «ACME» 51.2 (1998), pp. 219-247; λόγιος ἀνήρ. Studi di antichità in memoria di Mario Attilio Levi, a cura di P. G. Michelotto, Milano 2002.

Sull’ambiente torinese nel periodo tra le due guerre mondiali: A. d’Orsi, La cultura a Torino tra le due guerre, Torino 2000; L. Cracco Ruggini, Centocinquant’anni di cultura storico-antichistica in Piemonte (dalla Restaurazione agli anni Sessanta), «Stud. hist.» H.a antig. 19 (2001), pp. 23-67 (spec. 49-64).

Sul rapporto Levi-De Sanctis: M. A. Levi, Alla scuola di De Sanctis negli anni Venti, «Storia della Storiografia» 16 (1989), pp. 5-14; cfr. inoltre Id. Testimonianza, in Commemorazione di Gaetano de Sanctis nel primo centenario della nascita, Torino 1970, pp. 39-40.

Su Levi professore a Milano: I. Calabi Limentani, Mario Attilio Levi professore a Milano, in λόγιος ἀνήρ. Studi di antichità in memoria di Mario Attilio Levi, a cura di P. G. Michelotto, Milano 2002, pp. 53-60. Cfr. inoltre gli Annuari consultabili presso il Centro “Apice” dell’Università degli Studi di Milano.

Sull’adesione di Levi al fascismo: E. Mana, Origini del fascismo a Torino (1919-1926), in U. Levra – N. Tranfaglia (a c. di), Torino fra liberalismo e fascismo, Milano 1987, pp. 237-373; C. Dosio, Le origini del fascismo in provincia di Torino, «StudStor» 35, 1994, pp. 183-205; V. Sgambati, Il regime fascista a Torino, in N. Tranfaglia (a c. di), Storia di Torino, vol. VIII: Dalla grande guerra alla liberazione (1915-1945), Torino 1998, pp. 179-261. Sulla sua fedeltà alla monarchia: M. A. Levi, Tradizione e ‘Controcultura’ (L’Ora dei Tradizionalisti e dei Monarchici), Palermo 1978. Sulla partecipazione degli antichisti al programma culturale fascista: M. Cagnetta, Antichisti e impero fascista, Bari 1979.

Primi lavori di Levi dedicati agli aspetti politico-istituzionali della tarda repubblica romana: M. A. Levi, Silla. Saggio sulla storia politica di Roma dall’88 all’80 a.C., Milano 1924; Id. La caduta della repubblica romana, «RSI» 41, 1924, pp. 253-272; Id. La costituzione romana dai Gracchi a Giulio Cesare, Firenze 1928. Per l’incidente legato alla voce Cesare nell’Enciclopedia Italiana (=M. A. Levi, Cesare, Gaio Giulio, in EI, vol. IX, 1931, pp. 867-873) vd. P. V. Cannistraro, La fabbrica del consenso: fascismo e mass media, Roma-Bari 1975, p. 391 n. 129; M. Cagnetta, Antichità classiche nell’Enciclopedia Italiana, Roma-Bari 1990, pp. 91-205. Per l’abiura delle tesi meyerane e la rivalutazione dell’esperienza politico-istituzionale di Cesare, letta in continuità con quella di Augusto, vd. M. A. Levi, Roma negli studi storici italiani, Torino 1934; Id., La «affectatio regni» di Cesare, «Annali dell’Istituto Superiore di Magistero del Piemonte» 12 (1934), pp. 3-10; Id., Culto imperiale e genesi della monarchia augustea, «RSI» 54 (1938), pp. 1-14, e, più in generale, M. Cagnetta, Il mito di Augusto e la «rivoluzione» fascista, «QS» 3 (1975), pp. 139-181. Per il più ampio interesse di Levi sul principato, dalla sua genesi fino alla svolta determinata dall’avvento della dinastia flavia vd. M. A. Levi, I principii dell’Impero di Vespasiano, «RFIC» 16 (1938), pp. 1-12; Id., La legge dell’Iscrizione C.I.L. VI, 930 (lex de potestate Vespasiani), «Athenaeum» 16 (1938), pp. 85-95; e cfr. P. G. Michelotto, Aspetti dell’età imperiale nel pensiero di M. A. Levi: il problema del principato nella riflessione storiografica di Mario Attilio Levi, «ACME» 51.2 (1998), pp. 241-247.

Sugli anni della segregazione razziale e le novità portate da una recente ricognizione di materiali di archivio vd. M. Bellomo – L. Mecella, Dalle leggi razziali alla liberazione: gli anni oscuri di Mario Attilio Levi, in A. Pagliara (a cura di), Antichistica italiana e leggi razziali, Parma 2020, pp. 143-208, in particolare pp. 157-179 (a cura di L. Mecella).

Una bibliografia aggiornata (ma non completa) di Levi fino all’anno 1977 si può trovare in M. A. Levi, Il tribunato della plebe e altri scritti su istituzioni pubbliche romane, Milano 1978, pp. XXVII-XXXIV. Per gli anni successivi si ricordano: su Alessandro Magno Introduzione ad Alessandro Magno, Milano 1977; Alessandro Magno, Milano 1977;sui Nomadi: I nomadi alla frontiera. I popoli delle steppe e l’antico mondo greco-romano, Roma 1989; su Roma arcaica: Plebei e patrizi nella Roma arcaica, Como 1992; su Adriano: Adriano Augusto: studi e ricerche, Roma 1993; Adriano: un ventennio di cambiamento, Milano 1994.