Non so se i post dedicati alla musica che riprende temi classici suscitino o no interesse nei lettori di questo sito, se lettori ci sono. Credo però che, al di là della passione personale per la musica, che mi ha accompagnato e guidato per tutta la vita, insistere sull’argomento sia un modo importante per far conoscere la vitalità del mondo antico anche ai nostri allievi, destinatari ultimi, ancorché spesso mediati, del materiale che qui si cerca di organizzare. il fatto che oggi il mondo antico sia oggetto di ripensamento continuo soprattutto da parte dei musicisti, più che dei pittori e degli scrittori, prevalenti o comunque altrettanto presenti nel mondo di ieri, è un dato incontrovertibile. Su questo vorrei tornare in un altro post, chiedendomi (e chiedendo ai lettori) perché proprio i musicisti continuino a trarre ispirazioni da miti e personaggi dell’antichità. Per il momento mi accontento di dedicare qualche parola a Socrate, protagonista di un oratorio laico del 2013. Sottolineo la data: il personaggio Socrate aveva già conosciuto gli onori del palcoscenico musicale nel Settecento, con Telemann (Der geduldige Socrates, 1721, in realtà traduzione/rifacimento di un precedente libretto italiano di ugual titolo, La pazienza di Socrate, opera di Nicolò Minato, intonata fra gli altri da Antonio Caldara) e con Paisiello (Il Socrate immaginario, 1775: come indica il titolo, non si tratta del vero Socrate, ma di un suo moderno imitatore); a inizio Novecento, aveva scritto un dramma musicale su Socrate anche Erik Satie (1918-1920: ci torneremo sopra). Per ora ho preferito un testo più recente, per sottolineare la vitalità del tema anche nel contemporaneo, il vero contemporaneo (troppo spesso confuso, nelle scuole e nell’accademia, con un Novecento storico).
Autore della musica è il compositore australiano (1961-) Brett Dean, in questi giorni agli onori della cronaca perché al Festival di Glyndebourne è in scena la sua ultima opera, Hamlet. Nel 2010 Dean, già autore di una serie piuttosto cospicua di composizioni, per il teatro, le compagini sinfoniche, gruppi da camera o singoli strumenti (Dean è, nella vita, anche direttore d’orchestra e solista di viola), aveva pensato di scrivere una nuova opera; poi, l’opera si è ridotta a un poema sinfonico con coro, della durata di circa mezz’ora. Alla fine è uscito The Last Days of Socrates, composizione per orchestra, coro e basso-baritono, come recita la partitura (in realtà c’è un ruolo secondario anche per un tenore solista). La composizione, della durata di un’ora circa, è un vero proprio oratorio laico in tre parti, intitolate rispettivamente La dea Atena (Goddess Athena); Il processo (The Trial); La cicuta (The Hemlock Cup). L’ispirazione viene ovviamente da Platone, ma il testo è di un poeta australiano, Graeme William Ellis (1944-), autore di un paio di raccolte poetiche (Words fall like rain, 2009; Ned Kelly Verse, 2011), che a dire il vero, stante il sito della World Catalogue Library, non sembrano avere avuto molta diffusione fuori dal continente oceanico. Purtroppo, per questioni di diritti editoriali, non lo posso riprodurre in questo sito; la casa editrice consente di prendere visione solo delle prime pagine della partitura di Dean, per chi fosse interessato alla sua scrittura. L’oratorio è stato eseguito nel 2013 a Berlino, sotto la direzione di Simon Rattle, e poi a Melbourne e Los Angeles (direttori Simone Young e Gustavo Dudamel). Nella parte di Socrate si sono esibiti John Tomlinson, che a detta del compositore ha anche aiutato nella realizzazione della scrittura vocale del ruolo, e Peter Coleman-Wright. Qui l’orchestra è diretta da John Storgårds; solisti, il grande John Tomlinson (voce sonora e pronuncia impeccabile, anche se affetto da un fastidioso vibrato che ne compromette più volte l’intonazione) e Robert Johnston. L’ho divisa nelle sue tre parti, la seconda e la terza dividendole a loro volta in due. Dean è autore tardo novecentesco, che ama mescolare la musica elettronica alle sue composizioni; capace di sprazzi lirici, per il suo oratorio prevede un organico fatto di fiati, archi, ottoni, percussioni, arpa, celesta, ma anche di piano, chitarra elettrica e fisarmonica, oltre a pezzi di terracotta e metallo sbattuti gli uni contro gli altri, a imitare il suono degli ostraka che votano la condanna di Socrate. Il basso baritono protagonista dà voce al filosofo; il coro interpreta gli Ateniesi, le voci maschili dando corpo agli accusatori di Socrate, le femminili alla parte compassionevole del popolo. Il tenore assolve, di volta in volta, il ruolo di un giudice (II parte) e del carnefice che prepara la cicuta (III parte). La prima parte ha carattere introduttivo; la seconda trae il suo testo dall’Apologia di Platone; la terza dal Fedone. Dean in molte interviste ha paragonato Socrate a importanti figure controcorrente del nostro tempo, alle quali in certo modo la composizione sarebbe dedicata: l’artista cinese Ai Weiwei, noto dissidente politico; oppure Edward Snowden e Julian Assange.
Parte I – La dea Atena
.
La musica inizia dolcemente (la qualità sonora non è impeccabile), quasi impercettibile, attraverso strumenti fuori scena. Il coro invoca a gran voce, e più volte, “So-kra-tes”: prevalgono le voci maschili, ostili, dure, mentre l’orchestra si trasforma in un uragano sonoro. Dal minuto 2’40” la furia si placa: nel coro ora si sentono le voci femminili, fuori scena (al Barbican erano su una piattaforma elevata). In questo quadro idilliaco inizia, ca. al minuto 4’25”, l’invocazione alla dea Atena (“Goddess Athena”), che prima assume il carattere di litania, poi pian piano prende forza (7’23” ca.), e dopo un paio abbondante di minuti torna a farsi più dolce, finché la celesta pone fine all’invocazione.
.
Parte II – Il processo
.
Una lunga introduzione nella quale svetta il corno solista prelude a una climax sonora, sulla quale irrompe il coro, senza pronunciare parola fino al minuto 3’33”. Tenori e bassi danno poi sostanza alle accuse contro Socrate, che inizia a sua volta una breve rhesis concitata (4’33”), alla quale il coro risponde ribadendo le accuse, su una melodia sempre più saltellante (5’30”). Al minuto 7’50” il coro, dato sfogo a tutta la rabbia di gruppo che vede messe in pericolo le proprie certezze, erompe più volte nel suo “Enough! Enough! Sokratès”, che Dean riconosce in molte interviste come il momento cruciale della situazione (l’opinione comune non accoglie chi la obbliga a dubitare di sé). Socrate inizia un lungo discorso, 8’40”, lento e pacato, ribadendo alle accuse con le parole dell’Apologia. “What difence is this?” si chiede il coro (12’45”). Socrate ribadisce il suo credo (“I believe”, 13’57”) e introduce l’immagine del cigno, che canta profetico al momento della morte.
.
“Therefore, I don’t regard my end as a misfortune” conclude sereno Socrate, ma tanta sicurezza irrita ulteriormente il popolo ateniese contro di lui: sotto la spinta martellante del pianoforte (2’09”) si forma la parola “Danger!” a riconoscere la pericolosità di chi vive coerente con se stesso. Socrate ribadisce la sua calma (4’20”): “All that I know is that I know nothing… It is your fear that which speaks”, mentre la sicumera del coro è “imitation of wisdom, not real wisdom”. Nell’imbarazzato silenzio che segue, il corifeo invita alla votazione, riconoscendo che le parole di Socrate hanno valore finale (5’14”): su un ritmo quasi jazzistico, ognuno getta il suo voto nel vaso che contiene gli ostraka (si sentono uno di seguito all’altro i colpi di metallo che corrispondono ai voti fatti cadere nel recipiente), mentre il coro si divide fra tenori e bassi, che ripetono minacciosi la loro ostilità al protagonista, e le voci femminili, alla fine prevalenti, nel loro lamento per l’imminente condanna, anticipata dai colpi delle percussioni (6’20”). Alla fine restano solo le donne a piangere (7’25”).
Parte III – La cicuta
.
Il brano si apre con una lunga introduzione per violoncello solo, omaggio di Dean a Jan Diesselhorst, celebre violoncellista dei Berliner Philharmoniker (compagine orchestrale nella quale anche Dean ha suonato per una dozzina d’anni), già ricordato in un’altra composizione dell’autore, Epitaphs, 2010, un quintetto cameristico di cui un movimento rievoca l’amico e collega. Al minuto 2’04” inizia il lamento del coro femminile, fuori scena. Siamo così immessi a poco a poco nella stanza dove Socrate attende la morte, in un’atmosfera cupa, tenebrosa, amplificata da un suono funereo di tromba e dalle percussioni. Un inserviente presenta a Socrate la coppa della cicuta, riconoscendo nello stesso tempo in lui il più grande degli uomini (5’08”). Socrate prende la parola rievocando ancora il cigno (“The swan!… The swan!…”, 6’40”), accompagnato dalla celesta che – un po’ come in Death in Venice di Britten, dove dava visibilità a Tadzo e al suo ruolo di involontario psicopompo – sembra progressivamente rafforzare il pensiero della morte imminente.
.
Quando il lamento si fa troppo forte, Socrate interviene a rassicurare gli amici (0’59” “Calm yourself, and be brave!”). Le donne appaiono più rassegnate, mentre torna a farsi sentire il violoncello (2’59”). Socrate può così riappropriarsi della metafora del cigno: è lui, naturalmente, l’animale che muore, ma muore cantando e – come aveva detto al processo – nessuno canta se sta soffrendo, nemmeno l’usignolo. Come il cigno, Socrate vede ora dunque la propria morte, ma vede anche chiaramente che è solo il nostro terrore dell’ignoto che ci spinge a temerla. Dopo un attimo di meditazione, il coro riprende e fa sua l’idea (“The swan, the swan sings”, 5’39”) e accompagna Socrate nell’ultima celebrazione di sé e della propria coerenza interiore. Le parole si fanno sempre più lente, cadenzate: “The swan sings” ripete infine ancora una volta anche Socrate, con il ritmo di chi è ormai preda della paralisi e della morte. Alle donne il compito di dare l’ultima risonanza al lutto.