Dove le Metamorfosi di Ovidio hanno sempre trovato terreno fertile è, ovviamente, nel campo dell’opera lirica, per la quale esse hanno costituito, con il loro inesauribile repertorio di miti, un serbatoio di vicende da rendere teatrali. Il fenomeno si realizza già nell’età barocca e prosegue per tutto il Settecento; ha qualche sporadica attestazione nell’Ottocento; riprende quota nel Novecento. Naturalmente, non si tratta mai di una ripresa letterale del testo ovidiano: non solo per le necessità della teatralizzazione (che peraltro si direbbero spesso rispettate già dall’originale latino), o per l’obbligo di adeguare le vicende narrate da Ovidio a un organico, soprattutto vocale, che secolo dopo secolo rispetta usi ed esigenze diverse a seconda delle tradizioni e delle mode. In realtà, è implicita proprio nella definizione del mito la sua fertilità e la possibilità di adattamento a strutture continuamente diverse, e l’opera lirica ha sfruttato ampiamente questa caratteristica. Da qui, una serie di riscritture che, anche quando si ispirino esplicitamente alle Metamorfosi ovidiane, di fatto ne tradiscono la lettera, e spesso anche lo spirito.
Fra i testi che si potevano presentare ho scelto la Daphne di Richard Strauss [1864-1949], andata in scena per la prima volta a Dresda nel 1938, alla vigilia del secondo conflitto mondiale (scoppiato meno di un anno più tardi). Nel frontespizio del libretto l’opera si dichiara come un Dramma bucolico derivato da Ovidio. Si tratta di una composizione in un atto solo, originariamente pensata come complemento a un altro testo di Strauss, Friedenstag (Giorno di pace), una misconosciuta storia ambientata al tempo della Guerra dei Trent’Anni, ma di carattere dichiaratamente pacifista. Librettista di entrambe le composizioni avrebbe dovuto essere Stefan Zweig [1881-1942], che dopo la morte di Hugo von Hoffmanstahl [1874-1929] aveva preso il posto di quello come collaboratore privilegiato di Strauss. Zweig fu però impedito dalle autorità naziste di firmare i libretti straussiani (alla prima de La donna silenziosa, nel 1935, Strauss si era rifiutato di cancellare il nome di Zweig dalle locandine, e di conseguenza dopo sole tre recite venne proibita ogni ulteriore messa in scena dell’opera); Zweig, che era di origine ebraica, collaborò ugualmente al testo, ma da non accreditato, e nel corso del 1938 dovette fuggire prima a Londra, poi negli States e in Brasile. Il libretto di entrambe le opere fu perciò firmato da Joseph Gregor [1888-1960], un letterato di minore fama, che rimarrà un collaboratore fisso del musicista (che non l’amava molto). Le due opere ebbero rappresentazione separata, una in luglio, l’altra in ottobre. Daphne è dedicata al direttore d’orchestra Karl Böhm [1894-1981], che fu uno dei principali collaboratori musicali di Strauss.
Daphne descrive (in modo simbolico ed allegorico, specie considerando l’epoca di composizione e le complicate vicende legate alla sua messa in scena, alle quali ho già fatto cenno) un mondo arcadico di bellezza e tranquillità. Il testo si apre con un inno alla Natura intonato dalla protagonista, e con la rappresentazione di una comunità pastorale felice e tranquilla, guidata dai genitori della giovane, Gea e Peneo; comunità nella quale Dafne si inserisce perfettamente, amata dal giovane Leucippo (i nomi sono tutti classicheggianti, ma i dettagli sono sconosciuti ad Ovidio). Su questo mondo di pace piomba un giorno, dall’esterno, il dio Apollo, che vede Dafne, se ne innamora, la vuole per sé e, benché respinto, la considera cosa sua, fino ad uccidere il rivale Leucippo. Nel finale Dafne compiange il giovane ucciso, e il dio, che ha finalmente compreso di non avere speranze, si allontana, chiedendo a Giove di trasformare la ragazza nella pianta di alloro. La scena che chiude l’opera, con il nome di Daphnes Verwandlung (Metamorfosi di Dafne) vede il progressivo disgregarsi della protagonista come essere umano, e la sua trasformazione in pura voce che gorgheggia, come un’eco sempre più lontana. La violenza del dio si è compiuta, e ha portato alla distruzione delle vittime innocenti, che hanno perso la vita, come Leucippo, o la propria identità, come Dafne. Alla fine le parole della giovane, cui è affidata la conclusione dell’opera, si fanno sempre più frante, singoli sintagmi nemmeno sempre ben coesi fra loro. Eccone una traduzione italiana: “Vengo, vengo, verdi fratelli! Dolce fluisce a me, la linfa terrena! A te mi protendo, in rami e foglie, purissima luce! Apollo! Fratello! Già… le mie fronde… Vento… vento, gioca con me! Sacri uccelli… abiteranno in me… Uomini… amici… prendetemi a testimone… amore senza fine”. Segue il bellissimo finale vero e proprio, con il titolo di Mondlichtmusik (Musica al chiaro di luna): la metamorfosi si sta compiendo, Dafne si irrigidisce sempre più, la Natura torna a dominare e inglobare in sé la ragazza, ridotta progressivamente a pura voce, anzi a eco di una voce. La metamorfosi è trasformazione in altro, ma la trasformazione, quando non è voluta, significa perdita del proprio sé.
Mondlichtmusik
Strauss scrisse anche un’altra composizione intitolata Metamorphosen, priva di altri riferimenti all’opera di Ovidio che non siano il titolo. Si tratta dello Studio per 23 archi solisti – dieci violini, 5 viole, 5 violoncelli, 3 contrabbassi (un organico insolito) – scritto nel marzo/aprile del 1945 ed eseguito per la prima volta a Zurigo nel 1946. La guerra in Germania terminò solo nel maggio del ’45; ma il 30 aprile di quell’anno il suicidio di Hitler aveva fatto precipitare gli eventi. Metamorphosen è un’accorata riflessione sui danni prodotti dalla guerra. Una guerra segna sempre la fine di un mondo: la segna per i vincitori, la segna a maggior ragione per i vinti. Metamorphosen è un lento ragionare, in quattro tempi (adagio ma non troppo; agitato; adagio ma non troppo; molto lento – la climax discendente è di per sé molto eloquente), sulla fine della Germania, della sua civiltà, della sua arte. A Gregor nel febbraio del 1945 Strauss aveva scritto: “Sono disperato. La mia amata Dresda – Weimar – Monaco… tutto distrutto!”. Metamorphosen è la messa in musica di questa disperazione. La metamorfosi che si descrive è quella del passato, che non potrà più essere. Tre cellule ritmiche si rincorrono, si ripetono, si tramutano e si completano. Nel tessuto della composizione sono state riconosciute anche numerose citazioni, fra le quali due eloquentissime: la Marcia funebre della Terza sinfonia di Beethoven (il musicista dallo stile classico, assurto a nume tutelare del Romanticismo tedesco); e il lamento di re Marke, tradito dall’amico Tristan, nel Tristan und Isolde di Wagner (l’opera divenuta simbolo di certo Decadentismo tedesco). Chi vuole intendere, intenda!
Ecco il brano, per forza di cose diviso in due parti – un piccolo, inevitabile delitto. La prima si interrompe al minuto 25; la seconda prosegue a partire dall’interruzione.
Ulteriori informazioni sui rapporti di Strauss con la cultura classica si possono trovare nel bel volume di Franco Serpa, Miti e note. Musica con antichi racconti, Trieste 2009.
Buongiorno, il testo qui sopra è tratto dal libro citato. Giusto?
Grazie
No, di tutti i testi non diversamente firmati sono autore io.
Franco Serpa, che ho avuto l’onore e il piacere di conoscere anche di persona (e come voce alla radio: lo sentii la prima volta, sono in grado di dirlo, il 16 settembre del 1977, data di morte di Maria Callas, della quale presentò una registrazione radiofonica del “Parsifal”), naturalmente mi è servito come fonte di ispirazione e per controllare alcuni dati. Gli articoli raccolti nel volume citato sono, in massima parte, programmi di sala provenienti da diverse rappresentazioni operistiche, un po’ ovunque per il mondo.
massimo gioseffi