Gli esempi considerati finora ci permettono di tracciare un primo quadro di questa breve storia delle Metamorfosi nella musica del Novecento. Due elementi balzano agli occhi: ci sono composizioni che illustrano direttamente il poema di Ovidio, come avviene per le sei variazioni di Britten o l’opera Daphne di Strauss. Com’è ovvio, “direttamente” è parola da rideclinare poi caso per caso: Britten mette in musica sei momenti del poema ovidiano, ma nella sostanza usa il testo latino come banco di prova delle possibilità espressive di un singolo strumento musicale; e del concetto di metamorfosi, ricavato da Ovidio, mette in luce soprattutto la creazione di un nuovo linguaggio, che passa attraverso il mutamento e l’esperienza cosciente del mutamento. Strauss nella sua opera riscrive una vicenda ovidiana (il processo inizia prestissimo, e attraversa tutta la storia del melodramma). Quello che interessa è che, della trama di Ovidio, Strauss coglie soprattutto l’elemento di sopraffazione disturbante introdotto dall’azione del dio in una comunità pacifica e regolata da sue leggi – con evidente riferimento alla Germania del tempo. Della metamorfosi come fenomeno in sé quanto gli interessa è dunque la violenza che essa apporta, in uno stesso tempo, alla civiltà e alla natura: solo quest’ultima, nel finale, riprende la sua forma, ma in assenza di uomini e di dèi.
La seconda tipologia di ‘ripresa’ è quella esemplificata da Metamorphosen. Qui Ovidio, di fatto, offre solo un titolo e un concetto filosofico. La metamorfosi è una trasformazione che avviene con la violenza, per causa esterna, e che lascia alle sue spalle un cumulo di macerie – le macerie reali di Monaco bombardata, le macerie metaforiche degli eroi e delle eroine ovidiane. L’azione violenta, che per il poeta latino è opera di un dio capriccioso e vendicativo, anche quando agisca secondo giustizia (ma che il più delle volte agisce oltretutto indipendentemente dalla giustizia…), per Strauss è invece prodotta dall’uomo, o quanto meno dalla Storia, intesa come somma delle azioni umane. Ciò comporta un’enfasi tanto maggiore sull’elemento del pathos, in quanto tutto si realizza sul piano umano. E’ l’uomo che determina la metamorfosi, è l’uomo che la subisce.
Nel Novecento il concetto filosofico prevale sulla citazione del classico, come del resto ci aspettavamo: le Metamorfosi musicali per lo più non hanno in comune con Ovidio nient’altro che il titolo. Philip Glass (1937-vivente) nel 1988 scrive cinque pezzi per pianoforte dal titolo Metamorphosis, ma le Metamorfosi che vuole illustrare sono quelle di Kafka, non quelle ovidiane. Dei cinque brani che compongono la suite, almeno il secondo è famosissimo, perché divenuto elemento portante della colonna sonora del film di Stephen Daldry, The Hours (2002), dedicato alla vita di Virginia Woolf e interpretato da Nicole Kidman, Meryl Streep e Julianne Moore. Nel 1966 Gian Francesco Malipiero aveva composto un’opera, Le metamorfosi di Bonaventura, derivandone il canovaccio da un testo tedesco di inizio ‘800, Die Nachtwachen des Bonaventura (“I giri di guardia notturna di Bonaventura”). E’ un’opera che non sono mai riuscito ad ascoltare, ma a leggerne il sommario sembra un pasticcio incomprensibile; anche Montale, che fu presente alla prima a Venezia, ne parlava come di un testo dall’interesse drammatico pressoché nullo. Non so. Quello che è certo è che le metamorfosi cui si fa riferimento lì sono quelle che intercorrono fra autore e personaggio, i confini fra i quali, a un certo punto della realizzazione dell’opera d’arte, diventano labili e incerti.
Nel campo delle metamorfosi ‘filosofiche’ possiamo inserire anche il quartetto nr. 1 di Gyorgy Sandor Lìgeti (1923-2006), intitolato “Metamorfosi Notturne”. La composizione risale agli anni 1953-1954, a Budapest; la prima esecuzione (con qualche variazione rispetto al testo originale) avvenne poi a Vienna, nel 1958. Di mezzo, i fatti di Ungheria del 1956 e la fuga di Ligeti da Budapest all’Austria, nel dicembre di quell’anno. Il quartetto è una composizione in un unico movimento (qui diviso in due, per ragioni di spazio) e 17 parti. Vari sono stati i tentativi di definire l’opera e di suddividere le sequenze di cui si compone. La cosa più curiosa la scrisse forse Ligeti stesso, nelle note di copertina di un CD realizzato per la casa discografica Sony, nel 1996. Ligeti definì il suo quartetto come una serie di variazioni senza un reale tema, ma solo una cellula melodica di base. In realtà, l’opera, pur concedendosi numerose dissonanze, è ancora sostanzialmente tonale. Ligeti diverrà un adepto della musica dodecafonica ed elettronica solo dopo il passaggio in Occidente, e lo spostamento da Vienna prima a Colonia e poi ad Amburgo – le città dove ha insegnato e lavorato più a lungo.
Sul senso della composizione e il suo titolo ci illumina di nuovo l’autore: nell’Ungheria sottoposta al controllo sovietico prevaleva un’estetica legata al socialismo reale e al recupero delle musiche folkloriche. Ligeti, che non si riconosceva in questa estetica (era, del resto, un rumeno di nascita, divenuto ungherese dopo l’annessione, nel 1940, della Transilvania all’Ungheria. Di religione ebraica, aveva ben altre radici da quelle care al regime), è costretto ad aderirvi nelle sue composizioni ufficiali e, diciamo così, ‘diurne’. Di notte, ecco invece la possibilità di sbizzarrirsi più liberamente in composizioni che non verranno mai né pubblicate né eseguite, realizzate solo per se stesso. Da qui il titolo di Metamorfosi (inteso come ‘cambiamento di pelle’) e l’aggettivo Notturne (in riferimento al tempo della trasformazione, ossia della composizione). In realtà, il quartetto, che rielabora testi di Bela Bartók, è in fondo una metamofosi anche nel senso più tradizionale nel campo musicale.
Quello che interessa a noi è però che la metamorfosi, vista come mutamento del proprio aspetto esteriore, per recuperare una intima, più vera natura, qui diviene una conquista di libertà, un libero sfogo contro tutte le costrizioni di un potere assillante. Anche questo senso di rivolta non è assente dal poema ovidiano, così come non lo è il sospetto che la metamorfosi, per quanto crudele e imposta dagli dèi, altro non faccia che rivelare la più vera natura del singolo. Licaone, in fondo, era già lupo prima di diventarlo…
L’esecuzione, dal vivo, a Basilea nel 2011, è quella del Quartetto Mirus, dal cui canale l’ho ricavata, dove è offerta alla libera consultazione. Al canale rimando per tutti i diritti e le informazioni circa i bravissimi interpreti, pronto a cambiare edizione se dovessero decidere diversamente circa la possibilità di condividere le loro esecuzioni.