Una notizia importante, di cui abbiamo parlato poco sul sito del PrEcLab in questi mesi, è che dal 2023 la ricerca alle Colombare di Negrar di Valpolicella ha uno sponsor. Si tratta di Masi Agricola, cantina storica della Valpolicella guidata da oltre 250 anni dalla famiglia Boscaini e da sempre interessata a valorizzare le attività che portano beneficio al territorio. Masi, in particolare, sta supportando alcune delle analisi volte a ricostruire il paleoambiente del sito.
A inizio febbraio, siamo stati alla sede di Masi, a sant’Ambrogio di Valpolicella, per intervistare Sandro Boscaini, Presidente di Masi Agricola. Con lui abbiamo inaugurato la terza stagione delle nostre “Colombare in diretta” e abbiamo parlato del legame tra la cantina e la cultura del territorio. Ecco cosa ci ha raccontato.
Come nasce Masi Agricola?
Da un connubio inscindibile tra un territorio, che si chiama “vaio dei Masi” nell’alta Valpolicella, non lontano dalle Colombare dove si stanno svolgendo le ricerche archeologiche, e la famiglia Boscaini. Uno dei miei antenati, sei generazioni prima di me, ha iniziato a coltivare questo vigneto che poi è diventato proprietà della famiglia e che ha dato nome a un’azienda agricola prima, ad un marchio famoso ormai nel mondo, e da ultimo ha una società che è quotata in borsa, la Masi Agricola SpA. È una storia vecchia che nasce nell’alveo di una storia ancora più antica che è quella della vite e del vino della Valpolicella.
Masi Agricola ha scelto di sponsorizzare e supportare le ricerche dell’Università degli Studi di Milano e della Soprintendenza di Verona alle Colombare di Negrar di Valpolicella. Che significato ha per voi questo supporto alla ricerca scientifica?
Ci sono due motivi: il primo è un motivo più culturale, legato ad una delle espressioni di Masi che è la Fondazione Masi, la quale appunto si interessa della cultura veneta in senso più ampio. In questo in questo contesto, rientra anche lo studio del nostro passato, per capire chi fossimo un tempo, cosa facevamo nei secoli, nei millenni. Questa è uno degli interessi che porta che porta avanti la Fondazione, che è autonoma anche se finanziata da Masi, e che si esprime attraverso il premio Masi. Ogni anno viene consegnato ormai dal 1981 a personalità sia italiane che straniere, che appunto hanno una connessione di privilegio con il nostro territorio e con le Venezie.
Il secondo motivo è invece l’interesse scientifico come azienda, per comprovare attraverso i dati quello che in effetti noi facciamo in viticoltura ed enologia. Si tratta di un discorso molto bello, perché non diamo per scontato nulla, non diciamo “si è sempre fatto così”. Andiamo a chiederci perché nella storia quel qualcosa è stato fatto, come è stato fatto, e che risultati ha dato. Se ancora oggi certe modalità di coltivazione o certe modalità di trasformazione dell’uva in vino sono utilizzate, vuol dire che si è riscontrato un valore, attestato poi dalla prova scientifica. Per esempio, abbiamo la prova scientifica che esistono lieviti autoctoni della Valpolicella, ancora utilizzati per produrre l’amarone. È stato molto interessante lavorare per anni con varie università italiane e centri di ricerca, per selezionare lieviti particolari. Oggi Masi ha il privilegio di essere una delle pochissime aziende nel mondo che ha dei suoi lieviti autoctoni, trovati nelle proprie cantine. L’approccio è sempre lo stesso, cioè andare a verificare storicamente quello su cui si basa il fondamento attuale del nostro lavoro e la nostra cultura.
Più in generale, qual è il legame di Masi con la valorizzazione culturale del territorio?
Si tratta di un discorso di valorizzazione in senso lato, di stimolo e di premiazione di quelle attività che effettivamente portano benefici e sono di esempio per il territorio, o di personalità che sono diventate famose nel mondo mantenendo un “ancoraggio” con la cultura veneta e sono chiaramente molto importanti per dare anche un supporto morale alla nostra gente e al nostro territorio. La ricerca e poi la valorizzazione dei siti archeologici, di quelli antichissimi, ma anche di quelli più recenti, per esempio romani o medievali, quando visti in un’ottica di peculiarità del territorio sono di estrema importanza, perché ci portano a dire “qui c’è una vocazione del territorio”, diversa da quella che c’è in altre zone. Qui oggi facciamo dei vini e coltiviamo delle uve che sono uniche. Si tratta di una biodiversità che si è sviluppata e radicata in questo territorio per le sue condizioni climatiche e ambientali in un contesto unico caratterizzato da una sua originalità e peculiarità.
Uno dei principali obiettivi del progetto Colombare è lo studio del paleoambiente della Valpolicella. Come la fa sentire, sapere che ci sono dati scientifici che raccontano la presenza della vite negli strati di V e IV millennio a.C.?
Devo dire che è esaltante, perché mette la Valpolicella nella prospettiva di essere una delle poche zone d’Europa che effettivamente possono dimostrare di avere avuto storicamente un ruolo nella cura e nella coltivazione dell’uva. E poi, testimonia un legame tra l’antico e noi: questo segmentare il territorio con muretti a secco è quello che si fa anche oggi. Si ritorna al tema della collina terrazzata con le marogne. Il terreno qui da noi è impiantato su dei tufi e tende a slavare e andare a valle: allora utilizzare dei muretti per creare dei microambienti in orizzontale, dove la terra possa essere sufficientemente generosa è una dimostrazione di intelligenza e di saggezza “antica”. Trovare adesso che 5000 anni fa si procedeva nello stesso modo è esaltante. Anche riscoprire la biodiversità ricca del paleoambiente, tipica della Valpolicella, è esaltante. Oggi, la vite tende ad allargarsi un po’ troppo, ma fino a non troppo tempo fa, le aree viticole hanno sempre convissuto con il cereale, con l’ulivo, col ciliegio, con gli alberi da frutto. Certo, non si può più tornare come allora, quando l’attività agricola era un’attività di sussistenza e di supporto alimentare per la comunità. Oggi ovviamente c’è bisogno di una coltura più professionale. Non dobbiamo però mai dimenticarci che il paesaggio vive di questa biodiversità, che va curata.
L’esempio di come gli antichi abitanti delle Colombare hanno curato il territorio può essere d’ispirazione per la cura dell’ambiente della Valpolicella oggi e nel futuro, secondo lei?
Io credo che, quando le persone del luogo prendono coscienza che c’è un patrimonio di millenni, questo generi da un lato orgoglio verso la propria terra, dall’altro rappresenti un grandissimo monito. Diventa un’acquisizione culturale, di cui appunto si deve essere consci e orgogliosi, e questo è molto importante. Visitando poi le Colombare, ci si rende conto che anche l’orografia non può permettere di fare lavorazioni intensive: così la viticoltura di oggi deve essere professionale, certo, ma in un modo metta insieme la vite col suo territorio, con il bosco, con l’ulivo, con le altre essenze arboree ed erbacee. E questo ci dimostra che è molto difficile poter coltivare in maniera troppo esageratamente meccanica. Io credo appunto che il recupero di questo passato denoti anche oggi una volontà di lavorazione, sfruttamento ma anche mantenimento del terreno che non si allontana così tanto dal passato e che è molto bella.